Quando il piacere di leggere e di scrivere si incontrano nascono belle storie, profonde riflessioni, lunghe testimonianze di vita, che danno seguito a un dono da condividere. Prima di conoscerla, fuori dai suoi libri, mi aveva colpito una sua definizione: «Scrivere è questo, credo: aprire un canale e risuonare. E tutta l’umanità risuona tramite noi», dopodiché Antonella Cilento – napoletana, scrittrice, autrice d’opere teatrali, saltuariamente giornalista e ininterrottamente docente di scrittura creativa e non solo, è diventata una rivelazione anche per me. Ecco il frutto del suo dono ai nostri lettori, nella nostra recente conversazione a tutto tondo.
Antonella Cilento, prima di tutto buon compleanno per “Lalineascritta”, una bella 25enne che vanta il primato d’essere una delle più longeve Scuole di formazione alla scrittura (e non solo) in Italia. Per coloro che conoscono poco questa “giovane creativa”, vuoi raccontarci di lei qualcosa di più?
«Lalineascritta – Laboratori di Scrittura – è un’avvenente fanciulla nata nel 1993, quando in Italia le scuole di scrittura erano ancora agli albori: la bella e ancor oggi fondamentale esperienza di Giuseppe Pontiggia, i primi passi della Omero a Roma erano a quei tempi le uniche realtà in funzione. A Napoli qualche breve lezione era stata tenuta da Domenico Rea, che presto sarebbe purtroppo scomparso. L’idea quindi di insegnare i metodi, le tecniche,
la disciplina dello scrivere era considerata un’assurdità americana, benché tutto ciò che si poteva e si può insegnare sia stato in pratica raccolto da Aristotele e dagli antichi retori latini e greci. Ho cominciato in un’aula d’asilo, dopo aver seguito qualche incontro tenuto da una signora, Gabriella Ventrella, che si occupava dell’argomento: leggevo e scrivevo a ritmo forsennato, seguivo i corsi universitari (con grandi maestri, Giancarlo Mazzacurati, Massimo Bonfantini, Alberto Varvaro) e stavo apprendendo presso una locale associazione che si occupava di formazione trans-personale a gestire gruppi, a usare le arti e il teatro come crescita personale. Avevamo vent’anni, eravamo un piccolo gruppo di artisti (letteratura, arti visive e teatro insieme alla formazione corporea erano le nostre aree di interesse) e ci interessava superare i nostri blocchi creativi ed aiutare altri a superare i propri. Napoli era una città sprovvista, in quegli anni di scrittori, tutta la generazione precedente era migrata in altre città, e bisognava rifondare un luogo dove si scambiassero idee e pratiche. Il laboratorio è nato così: in pochi anni era dentro librerie e con decine e decine di allievi. Iniziarono con successo le esperienze nella scuola pubblica, prima in Campania e poi in tutt’Italia, il mio percorso di scrittrice nel contempo decollò, il metodo che praticavo si estese e diffuse. Oggi Lalineascritta è una scuola strutturata con molti corsi: i tre livelli annuali di base, ospiti di prestigio nazionale, editor di
grandi case editrici, scrittori ospiti, corsi di ludo scrittura, drammaturgia ed editoria ma anche di uso del segno e del colore, di opera lirica e improvvisazione teatrale, fortunatissimi corsi in web-conference che ci collegano con allievi da tutto il mondo in diretta, manifestazioni internazionali offerte al pubblico come Strane Coppie, che nel 2018 compie dieci anni, dove si confrontano scrittori e opere da tutti i Paesi del mondo. E soprattutto uno staff molto competente ed entusiasta che mi affianca: Marco Alfano, musicista, web master, insegnante di ludo scrittura, Stefania Bruno, drammaturga e storica del teatro, Stefania Cantelmo e Valentina Giannuzzi, editor di grande qualità, Paola Russo, progettista, e il nucleo storico dell’associazione, Iole Cilento, scenografa, artista e insegnante dell’Accademia di Belle Arti, e Paolo Oliveri del Castillo, regista e amministratore. Inoltre da ormai sei anni ci regala straordinarie lezioni magistrali uno dei più grandi scrittori italiani, Giuseppe Montesano, amico e maestro: siamo molto orgogliosi che lo stimolo ad insegnare ai nostri allievi abbia contribuito a far nascere un’opera straordinaria come Lettori selvaggi, Premio Viareggio 2017. Gli allievi ormai sono migliaia e molti, quelli che avevano serie possibilità, sono autori editi da grandi case editrici: il nostro lavoro consiste nell’accompagnare chi ha vero talento e autentica disciplina fino alla pubblicazione con case serie, forniamo consulenza editoriale e, insieme, formiamo lettori e spettatori consapevoli. Il grosso del nostro pubblico vuole attraversare la scrittura e le altre arti per conoscere meglio se stesso, ritrovare uno spazio personale creativo abbandonato per il lavoro o la famiglia, incontrare lettori forti».
La scrittura – questa (s)conosciuta invenzione – regala in chi la pratica sorpresa e disagio e sentimenti mobili in chi ne legge i contenuti. Come e quando nasce in te il fascino per la scrittura e come si manifesta la prima originaria forma d’espressione?
«Mi piace l’espressione “sentimento mobile”: il disegno, la pittura e le storie sono state le prime passioni della mia vita.
Una vita solitaria e silenziosa, fatta di immaginazione e libri. Ho sempre immaginato storie per passare il tempo che mi era impedito di vivere attivamente, per superare malattie e paure, per sopravvivere alla notte, insomma, come ho scoperto poi succede quasi ad ogni scrittore e scrittrice che ho letto e amato. Il disperato bisogno di leggere, di abitare altrove per tornare ad abitare dentro di me, la ricerca di domande simili alle mie nelle pagine che leggevo è stata la molla: il riconoscimento in un racconto di Anna Maria Ortese quando avevo dieci anni la spinta definitiva. Disegnare sul foglio volti e azioni e farlo con le parole (sfida anche più ardua, l’ho dovuta apprendere, d’istinto disegnavo e basta) è stata la base. La scoperta che la letteratura parlava anche di me, che da qualche parte ero già stata scritta, che mi sarei riconosciuta nelle parole di uomini e donne, diversi da me eppure simili a me, è stata la conferma di una vocazione. Semplicemente, non potevo farne a meno».
Dal sistema cuneiforme ai moderni smartphone, com’è cambiato secondo te il modo di raccontare e di leggere dell’uomo?
«Le forme cambiano, basta pensare alla nascita del romanzo che oggi ci sembra una forma eterna ma che per come la concepiamo noi moderni ha appena tre o quattrocento anni, ma le ragioni per cui si scrive sono sempre le stesse: ingannare la morte. Le ragioni di Omero, quelle di Sherazade, quelle di Shakespeare o di Murasaki sono le stesse: sono quelle di Cervantes o di Kafka, di Proust o di Flaubert: ognuno le declina a modo proprio ma la necessità è creare bellezza (il che include il ritratto del buio umano) per far chiarore durante l’inverno. Ogni tot secoli l’umanità perde la capacità di leggere, che resta privilegio di pochi, ma non smette di raccontare e raccontarsi storie».
Scrittura-Lettura è un binomio naturale, ma qualcosa (nel nostro Paese) ha inceppato il sistema. Il vezzo dei tanti aspiranti “scrittori” è solo un male nazionale o c’è una motivazione più profonda, a fare la differenza, che spiega le innumerevoli perdite di “lettori” in Italia?
«Non è solo il numero ma anche la qualità dei lettori che sbiadisce: si estende forse la massa che incontra un libro ma ne cala la profondità di lettura. Le cause e i colpevoli sono tanti: l’informazione che è diventata narrativa, la
spettacolarizzazione degli eventi, i media, le ridicole politiche culturali pubbliche ed editoriali, i progetti del potere che desidera ovviamente un popolo poco alfabetizzato e spaventato. E’ una fase buia, che torna e torna, non è una novità: ne avvertiamo lo spavento perché fino a poche decine di anni fa’ andare nello studio di un medico, ad esempio, significava vedere librerie cariche di letteratura e oggi invece ci sono begli spazi bianchi e il dottore che ti curerà ha letto a stento i manuali della sua specifica branca di lavoro. E’ scomparso di colpo l’umanesimo che teneva insieme i lettori forti della borghesia italiana. Si legge e si scrive moltissimo sul cellulare: ma cosa si legge? e cosa si scrive?».
Sei stata recentemente invitata a Pistoia, quest’anno capitale della cultura italiana (nel 2018 sarà Palermo la capitale nazionale della cultura, n.d.r.), come testimonial d’eccezione della Sesta Giornata nazionale delle Biblioteche, “Bibliopride 2017”, organizzata dall’AIB (Associazione Italiana Biblioteche). I temi di quest’edizione sono stati “Accessibilità e Accoglienza”, come pure la partecipazione di nuovi spazi di lettura in contesti diversi dalle usuali biblioteche, come ospedali o carceri. Qual è stata, in questo contesto, la tua esperienza? e quale il tuo messaggio?
«Sono stata molto felice di sostenere il lavoro delle biblioteche: mi è stato chiesto un breve racconto e ho scelto di rappresentare una bambina, figlia di una casalinga e di un pescivendolo, che però in biblioteca ha imparato a sognare e vede materializzarsi i sogni intorno a lei. Vede i personaggi dei libri che legge, quelli che lei stessa inventa e le persone che conosce in nuove, inedite vesti. L’incontro promosso a Pistoia ha raccontato della difficoltà in cui versano le biblioteche in Italia, specie in alcune regioni, del volontariato obbligatorio che la latitanza di fondi e progetti culturali a lunga scadenza causa, dell’enorme energia che porta i libri nelle carceri e negli ospedali. Nelle carceri spesso ci sono i lettori più forti che abbia incontrato: la segregazione, la separazione dai mezzi di comunicazione concede nuovo spazio alla lettura. Costa davvero così poco leggere: è lo strumento più democratico che esista e insieme il più eversivo».
Tra i bouquiniste della mia Sicilia ho talvolta adocchiato un piccolo pamphlet dal titolo: “La gestualità dei Siciliani”. Quanto conta la gestualità in scrittura per te e nei tuoi personaggi?
«Molto. I gesti dei personaggi spesso contraddicono le loro parole, come accade nella vita. Un gesto conta e rivela di un personaggio tante cose. Un piccolo nervosismo, l’insicurezza sociale, la debolezza. Ho letto di recente un capolavoro ungherese, Anna Edes, di Deszo Kostolanyi, in cui la giovanissima cameriera Anna, venuta a Budapest dal lago Balaton, si stringe nelle spalle per dire sì e questo gesto è considerato davvero scostamento dai suoi padroni. Finirà con l’accoltellarli».
Qual è da scrittrice e collaboratrice giornalistica il rapporto con la tua città e quanto la
napoletanità incide nella tua scrittura quotidiana?
«Napoli è un luogo comune, dunque è molto faticoso abitare dentro un luogo comune, specie quando se ne vedono gli aspetti più dimenticati, invisibili ed eccezionali. E’ il mio posto e dunque scrivo da qui ma è noioso e faticoso avere a che fare con i difetti e la recita dei difetti che la città diffonde o cui si attaccano i mezzi di comunicazione. La città che amo è in un altro livello di esistenza rispetto al rumore quotidiano: è nell’occhio di vetro che notava in un volto di donna Sartre quando ci camminava, stranito. E’ il luogo immaginato da Hoffmann senza averlo mai visitato. E’ le passeggiate notturne di Domenico Rea, la visione grottesca e picara di Giuseppe Montesano, la pagina visionaria di Ortese e quella intelligente, ironica e dolorante di Fabrizia Ramondino. E’ la città delle vertigini e del buio e del vassoio di luce quotidiano. Una messa sensoriale, tutti i giorni».
Annamaria Ortese e Anna Banti sono state due scrittrici importanti dentro al ‘900 italiano. Quanto hai assorbito delle loro personalità? e perché ritieni importante rileggerle?
«Ortese mi ha accompagnato tutta la vita, anche quando la dimenticavo. Così anche alcune pagine di Anna Banti, penso a un racconto magnifico che s’intitola Tela e cenere. Vanno lette o rilette le maestre del nostro Novecento, e con loro Lalla Romano e Elsa Morante, Natalia Ginzburg e Fausta Cialente, perché forse hanno dato alla nostra letteratura più di quanto sia riuscito agli uomini. E perché hanno iniziato con fatica un percorso di scrittura che in altri paesi si era già avviato fra ‘700 e ‘800: per quanto conti solo scrivere bene e non essere uomo o donna, le donne hanno diritto di scrivere da un tempo ridicolo, se si considera intera la storia dell’umanità. Ortese e Banti mi sono state maestre, così come ho amato e amo appassionatamente Stevenson e Bulgakov, per esempio».
In aggiunta alla precedente domanda, puoi darmi una tua breve definizione di classico della letteratura?
«Credo abbia già detto tutto e bene Italo Calvino, spiegando che la classis, la nave, attraversa i mari del tempo. Un libro diventa classico quando dialoga, a dispetto dell’epoca e del tema, con generazioni fra loro lontanissime. Le nere generazioni degli uccelli volano ininterrotte dai tempi dell’antica Grecia, l’aurora non può che avere dita di rosa, come scrive Omero, noi siamo fatti del tessuto di cui son fatti i sogni, come dice il Bardo. Ti accorgi se un libro è destinato a durare, magari a scomparire e ad essere riscoperto: ha toccato le corde più profonde e l’ha fatto nella forma irrinunciabile della verità».
In scrupoloso ordine cronologico, cito tre successi editoriali – due sono romanzi, uno è una raccolta di ritratti di persone della tua città – che riguardano la produzione recente di Antonella Cilento: “Lisario o il piacere infinito delle donne” (Mandadori, 2014), “Bestiario napoletano” (Laterza, 2015) e “La madonna dei mandarini” (NNEditore, 2015). In un epoca di self-publishing ed e-book, cosa fa la differenza tra il grande e il medio-piccolo editore indipendente? E poi – tu sei stata l’unica finalista femminile allo Strega 2014 con Lisario –, i premi letterari mantengono il loro carattere di necessarietà?
«L’unica differenza è fatta dai tuoi interlocutori: chi sceglie un libro – perché ha capito in profondità cosa è e chi sia il suo autore – instaura un rapporto personale e indipendente dal commercio con la letteratura; io cerco quegli interlocutori, che con difficoltà ho trovato, penso a Laura Bosio o ad Antonio Franchini, fra i miei lettori veri in ambito editoriale. Il self-publishing è una scorciatoia: impedisce a chi scrive di confrontarsi con la gavetta, con la difficoltà, con la fatica, tutte cose così poco di moda oggi. E invece: impari ad essere scrittore o scrittrice con i rifiuti, con gli errori, con le incomprensioni. I premi hanno una funzione esteriore rispetto a questo, alcuni sono utili agli editori, altri ci fanno sentire importanti per un po’. Poi torni a casa e scrivi, e leggi: che è l’unica cosa che conti. Se sei un artista vuoi che l’opera sia perfetta e sai che non lo sarà mai e che non puoi smettere di provarci. E questo è tutto».
Cosa ti colpisce di più dei personaggi che leggi e cosa impari, invece, dai personaggi che scrivi?
«A vivere. A ridurre le apparenze della vita e a metterle in scena. S’impara sempre, non si smette mai. Finché siamo vivi impariamo e così anche i nostri personaggi. I grandi scrittori e le grandi scrittrici sono tali perché hanno trovato il modo di dar vita a persone indimenticabili, per sempre fissate nei loro errori e nella loro infelicità e non per questo incapaci di esistere e resistere».
Hai qualche lavoro nel cassetto? Un romanzo di imminente uscita e di cui vuoi regalarci una piccola anticipazione?
«Un nuovo romanzo esce dopo quattro anni di lavoro a gennaio da Mondadori. S’intitola, salvo sorprese, “Morfisa o l’acqua che dorme”. Mi è costato molto, in ogni senso: è un romanzo complesso, che si muove nel tempo e nello spazio, che s’interroga sul senso dello scrivere e sui rischi che prendiamo per farlo. Poi lo si può leggere come romanzo storico, come fantasy, come giallo, come romanzo d’avventura; al lettore la scelta».
Antonella Cilento* (nata a Napoli, 1970) con “Lisario o il piacere infinito delle donne” (Mondadori) è stata vincitrice del Premio Boccaccio 2014 e, nello stesso anno, finalista assoluta della LXVIII Edizione del Premio Strega. Il romanzo ha avuto traduzione in Francia, Germania, Spagna e Lituania ed è in via di pubblicazione in Corea. Fra le precedenti pubblicazioni, ne citiamo solo tre: “Il cielo capovolto” (Avagliano, 2000), “Una lunga notte” (Guanda, 2002 – Premio Fiesole 2002, Premio Viadana, finalista Premio Vigevano, Premio Greppi e selezionato al Festival du Premier Roman di Chambéry), “Non è il Paradiso” (Sironi, 2003). Per il teatro ha scritto “Isole senza mare: omaggio ad A.M. Ortese ed Elsa Morante”, regia di Cristiana Liguori; “Bambini nel tempo” da I. Mc Ewan e per il Teatro Cargo, con la regia di Laura Sicignano, “Il funambolo. Omaggio a J. Genet”, prodotto dall’omonimo Teatro, da un’idea di Iole Cilento, e “Frankenstesin Barausz”. Ha scritto, inoltre, per il teatro-ragazzi: “Ho visto Don Chisciotte”, regia e ideazione di Giancarlo Cosentino, prodotto dal Teatro Diana e per il cinema, invece: “Il martirio di Sant’Orsola” di Mario Martone e Sandro Dionisio, “Solo agli occhi” (omaggio ad Anna Maria Ortese) di Sandro Dionisio, produzione Digigraph, Dionisio e Aldebaran Park e “Il canto di Partenope” di Sandro Dionisio, produzione Eskimo. Ha realizzato, infine, per RAI Radio3 “Voci dal silenzio” e Scisciano Paradise.
(*) Foto copertina d’apertura, © 2011 Giliola Chisté.