Prendendo spunto da un brano che ho letto sul web:
Il dopo
Non voglio che ci sia un dopo
Cancellate tutto
Bruciate i miei scritti, i miei quadri, le mie foto
Distruggete il mio cellulare e tutto quanto possa ricordarmi
Spargete le mie ceneri nel mare, il mio amato mare natio
Nessuno mi deve piangere
Nessuno mi deve ricordare
Non sono mai esistito
Sono stato il nulla mischiato col niente
Adieu
tratto da “Memorie di un mancato libertino”
autore anonimo
Qualche giorno fa, ho voluto lanciare una provocazione su facebook e ho scritto un post:
Tacere o parlare?
Subire o ribellarsi?
Arrendersi o lottare?
Diciamo che i commenti non mi aspettavo fossero così tanti. Ecco cosa dicono: lottare; lottare sempre; lottare e non arrendersi mai; ribellarsi; non mollare mai; parlare, ribellarsi e non arrendersi; lottare sempre, tacere mai; combattere sempre; urlare, combattere e ribellarsi; lottare sempre con tutte le energie, lottare sempre; ribellati e fai sentire la tua voce, urla più forte e non mollare; e così via dicendo.
Chiaramente non so cosa avessero immaginato gli amici che hanno risposto al mio post.
Ma allora, qual è stato il fattore scatenante che mi ha spinto a scrivere quelle tre domandi?
L’ennesimo sopruso subito.
E già, il sopruso, la sopraffazione, l’imposizione, etc. tante parole che esprimono lo stesso concetto.
Nel settembre 2018 avevo scritto il brano “PREVARICAZIONE 2.0” (per chi volesse leggerlo: https://www.giornalecittadinopress.it/prevaricazione-2-0/, dove trattavo, appunto il tema in questione, questo pezzo era il seguito di un precedente brano di tre anni prima, dove avevo trattato lo stesso argomento, ecco la ragione per la quale ho dato il titolo “Prevaricazione 3.0”.
In cinque anni è cambiato nulla? Assolutamente no, proprio nulla, anzi credo proprio che la cosa sia peggiorata assai, ma assai di assai.
Tornando a noi, “a noi” chiaramente non è lo slogan di mussoliniana memoria, ma è un modo di dire per riprendere il filo del discorso che si era iniziato.
Cosa era successo?
Mi sto dilungando volutamente troppo, lo so, ne sono consapevole, perché ho molti dubbi e poche certezze.
Quanto riporterò dopo riguarda un mio caro amico, di cui non rivelerò il nome per non compromettere la sua già delicata posizione, quindi “scrivo per un amico”, prendendo spunto dal leitmotiv dei bravissimi I Sansoni “chiedo per un amico”.
Qualche giorno fa il mio amico ha avuto sentore che volessero trasferirlo ad altro ufficio con una mansione non meglio precisata, la fonte era più che sicura. È andato subito nel panico, tachicardia, mal di testa, male al petto con interessamento del braccio sinistro e relativo formicolio alla mano, per poco non sveniva.
Allora io, ho deciso di scrivere, al suo posto, al superiore dell’amico.
Caro Superiore (da non confondere con il superiore di Fantozziana memoria),
perché, dopo trent’anni di onorata carriera hai deciso di trasferire il mio amico ad altro ufficio, a fare cosa poi. Forse non ti stava bene come lui ha svolto il lavoro che anni prima gli era stato affidato da un altro tuo collega superiore?
E dire che, con prova provata, mi risulta che il mio amico è sempre stato apprezzato da tutti coloro con cui è stato a contatto, e che ha contribuito fattivamente a scrivere belle pagine che hanno fatto figurare, in positivo, l’azienda a cui entrambi lavorate.
E poi, manca solamente un anno al suo pensionamento, perché non lasciarlo in pace lì dove ha lavorato egregiamente in tutti questi anni?
Trasferirlo e perché? E dove poi e a fare cosa? Perdere una risorsa produttiva assegnandola ad altra attività per la quale, con tutta la buona volontà, dovrebbe ripartire da zero rallentando, così, il “nastro” lavorativo?
Caro Superiore, vedi che il mio amico è cagionevole di salute, non vorrei che con questa imposizione si chiuda in se stesso. C’è il serio rischio che questa volta, da questa brutta situazione non ne esca facilmente. Forse ricorderà che qualche annetto fa, per il troppo stress accumulato e per il carico eccessivo di lavoro, ha rischiato la pellaccia. Le conseguenze potrebbero essere gravi, vuoi correre il rischio di avere sulla coscienza, per chissà quale futile e indecifrabile motivo, il suo stato di salute?
Caro Superiore se mi posso permettere, ti suggerisco di tornare sui tuoi passi, tanto non ti costa nulla, e fagli trascorrere in pace questo ultimo annetto prima della meritata pensione, lì dove per tanti anni ha svolto degnamente il proprio lavoro. Quello è il posto che gli compete avendone soprattutto il titolo professionale (un altro rispetto a quello di studio).
Firmato
L’amico dell’amico
P.S. Dimenticavo questa non è la prima angheria che subisce sono già ben sette, e dico sette e non una, o due o tre, ma sette angherie in questi ultimi anni. Non è arrivata l’ora di dire basta?
Lasciamo stare per adesso il mio amico, non voglio dilungarmi su un caso singolo, spero per lui che la cosa rientri, ne va del suo equilibrio psicofisico.
Quanti casi di questo tipo ci sono e non solo nel mondo lavorativo? Tanti, troppi. E allora che fare? Ribellarsi, reagire, lottare e così via, come hanno suggerito i miei amici di facebook? A parole è facile ma nella realtà non è così semplice. Riprendo l’esempio del mio amico: lui è una persona mite, lo conosco bene, lui subisce, soffre ma non si ribella.
Ma attenzione, non stuzzicate il cane che dorme (detto popolare che cade a pennello), anche il più mite uomo potrebbe reagire in maniera inaspettata ed imprevedibile.
Per concludere mi sento di fare un appello, a nome del mio amico, a tutti coloro che sono oggetto di soprusi, sopraffazioni e così via dicendo, uniamoci, più si è e meglio è. Bisogna imparare a ribellarsi e come dicono al nord “cafuddare”. L’importante è non “assuppiamoccela” senza reagire …
Concludo con lo slogan augurale del mitico ’68 “Lotta dura senza paura”, sperando che non finisca come allora, ahahahah.