giovedì, 31 Ottobre 2024
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Parole dialettali oramai in uso da tutti

Le esclamazioni più usate dai siciliani, “minchia” e “suca”, sono oramai utilizzate da sud a nord dello stivale

Alcune parole del nostro bellissimo dialetto, ovvero come dice il mio amico professor Lino Buscemi, non dialetto ma lingua siciliana, ed io gli do ragione, hanno attraversato i confini dell’isola e sono diventati, oserei dire, Patrimonio dell’Umanità. Non me ne vogliano i benpensanti se ho usato il termine Patrimonio dell’Umanità, anche se non ufficialmente lo sono. lo meriterebbero.

Due parole in particolare si sono diffuse più velocemente di altre e più precisamente la prima composta da quattro lettere che comincia con S e termina con A e l’altra composta da sette lettere che inizia con M e termina con A.

Volutamente non le ho già trascritte interamente perché sono sicuro che le avrete sicuramente comprese e non perché fanno parte di quei “tabù linguistici”.

Prego i lettori di non scandalizzarsi oramai le due parole sono così diffuse che non richiamano più la volgarità. Nel tempo hanno assunto significati più reconditi, espressioni che non hanno niente a che vedere con il suo uso originale.

Nel mio vecchio vocabolario “Siciliano – Italiano” di Antonio Traina, edito da: Centro Editoriale Meridionale e pubblicato nel 1868, la parola «Suca» non è contemplata. La parola che più si avvicina è “Sucari” che equivale in sintesi al termine in italiano “Succhiare”. Il perché non ci sia è presto detto, a quei tempi tale parola era abbastanza volgare e sconveniente in uso solo al popolino. Mentre la parola «Minchia» nel vocabolario c’è.

Quindi, già nella metà dell’800 alcuni termini dialettali di uso comune oramai in tutto il mondo, uno era nascosto e l’altro invece era usato.

Nel tempo, per la prima parola sulla quale Roberto Sottile scrisse il libro “SUCA. Storia e usi di una parola”, si è avuta una evoluzione con la trasposizione in 800A. La sua prima diffusione si è avuta con le scritte apparse sui muri, prima nel palermitano e poi un po’ ovunque in ambedue le versioni. L’uso di 800A doveva essere un modo per camuffare quella zozza parolaccia volgare. Oggi pronunciarla non suscita più scandalo anzi viene usata come un termine liberatorio. Da precisare che tale parola nasce nel palermitano, si è diffusa dopo in tutta la Sicilia.

Come afferma il compianto prof. Roberto Sottile nel suo libro sopra citato: «la parola nasce appunto dalla necessità di indagarne la dimensione più strettamente dialettologica e sociolinguistica».

«Così – spiega l’autore – ho tentato di mostrare l’uso della parola nelle diverse situazioni comunicative di oggi: nella lingua parlata, nelle scritte murali delle città italiane, nelle diverse varietà colloquiali – come l’italiano giovanile, l’italiano della radio, della televisione e del cinema, nei linguaggi della cosiddetta CMT (le scritture digitate mediante i dispositivi mobili), nel linguaggio dei gesti e nell’italiano letterario».

L’altra parola M….A ha origini dal latino MENCLA, nel napoletano è menchia, menghia; in sardo: mincia. È la forma collaterale di MENTULA, di MENTA, membro virile.

La parola è frequente anche come esclamazione (di meraviglia, di stupore, ecc.), o in espressioni ingiuriose come “Minchione” che equivale a dire ad una persona “Fesso”.

Oramai è talmente usata che talvolta chi la intercala in un suo discorso manco si rende conto di averla usata al pari di: “ma che cazz…”.

Cari lettori, non me ne vogliate se ho voluto trattare questo tema, non scandalizzatevi, tanto tali espressioni le usiamo tutti, forse un po’ meno l’originale di 800A, perché il nostro retaggio del passato e l’educazione che abbiamo ricevuto ci frena non poco dall’usarla. Se io avessi usato tali espressioni d’avanti a mio padre, mi sarei preso una bella lavata di capo lunga quanto di qua a New York. Per loro queste due parole erano delle volgarità che, non stavano bene nella bocca dei loro figli.

Piccolo inciso: Roberto Lipari in un suo video ci racconta che nell’altra parte del modo e più precisamente in Indonesia la parola Suka vuol dire “mi piace”. Da noi, specie nel palermitano, come ho già detto equivale a un insulto che può manifestare dissenso o ironia, disprezzo o scherzo. Che sia un’offesa da parte di un nemico o una “pigghiata pù cul.” da parte di un amico. Quello che da noi è un’offesa a Bali è sintomo di apprezzamento. Vedi come cambia il significato di una parola a secondo dove ti trovi.

Altre parole conosciute all’estero brevemente sono: “Amunì” (andiamo), “Annacarsi” (ha due significati – affrettarsi ma anche tergiversare), “A tia talìu” (ti guardo – ovvero – ti tengo d’occhio), “Bedda Matri!” (espressione che esprimere notevole stupore e meraviglia), “Botta ri Sali” (termine usato verso qualcuno che non si apprezza particolarmente), “Camurrìa” (scocciatura, fastidio), “Chista è a zita” (la frase completa è: Chista è a zita, cu ‘a voli sa marita – questa è la fidanzata, chi la vuole, se la sposa), “Cu n’appi, n’appi” (l’espressione completa è “Cu n’appi n’appi re Cassatelli ri Pasqua” e significa letteralmente “Chi ne ha avuto, ne ha avuto, delle Cassatelle di Pasqua” – le cassatelle sono un tipico dolce siciliano), “E cu è, Totò Termini?” (Totò Termini, è una figura mitologica della cultura siciliana, il detto significa: stiamo dicendo che quella persona si sente molto importante), “Focu ‘ranni” (l’espressione serve per indicare una situazione davvero complicata e difficile da sbrogliare), “Gira vòta e furrìa” (girare in continuazione, senza meta), “tra un viriri e sbiriri” (in un attimo), “Parlari tischi-toschi” (cercare di camuffare la propria provenienza cercando di parlare in italiano), “Sabbinirica” (è un saluto rispettoso – “che Dio ti benedica”), “Sciatiri e matri!” (intorno a questa espressione ci sono varie voci di tendenza, per me quella più accreditata è “fiato di madre”), “Unn’è santu chi sura” (letteralmente “Non è un santo che suda” ovvero dalla persona a cui ci si sta riferendo non si otterrà nulla), “Va eccati!” (vai a buttarti! ovvero levati di torno, non ti voglio più vedere).

In ultimo non posso esimermi dal citare il mio autore preferito il buon compianto Andrea Camilleri, che ha diffuso in tutto il mondo molte parole del dialetto siciliano reinterpretandole a suo modo, la sua frase più conosciuta è pronunciata dall’intrepido Catarella Di pirsona pirsonalmente”.

In conclusione dico se adesso, le due parole protagoniste di questa mia riflessione scritta, le vogliano usarle, facciamolo, ogni tanto liberarsi della propria rabbia interiore fa bene “E’ che cazz… – quanno ce vole c’è vò”.

Alla Prossima…

P.S. La foto in copertina è una mia opera pittorica intitolata “Colori di Sicilia

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