Tradizioni, cultura, mercati storici rionali di Palermo, ma anche cibo di strada e salute: questi i temi affrontati nell’incontro dal titolo “Palermo la ghiotta: cibo da strada, mercati storici e salute”, tenutosi presso la sede della casa editrice “Punto Flaccovio” di Palermo. I temi sono stati affrontati e sviluppati dallo storico ed esperto di tradizioni siciliane, Gaetano Basile, dall’architetto ed autrice del testo “Palermo, la città ritrovata”, Adriana Chirco, e dal gastroenterologo, dottor Giovanni Gatto.
Se il cibo è il “contenuto” della città, è necessario conoscere ancor prima il suo “contenitore”, cioè la città stessa. Interviene, a tale proposito, l’architetto Adriana Chirco che, attraverso un excursus architettonico-urbanistico, descrive l’evoluzione e l’attuale condizione in cui versano i mercati rionali e i quartieri all’interno dei quali sorgono.
«Il cibo di strada nasce nelle piazze, in particolare, nelle piazze dei mercati. Fin dall’antichità – spiega l’architetto – Palermo possedeva una strada mercato e, con la conquista araba, si vanno sistemando e organizzando i quartieri esterni al “Cassaro” nei quali verranno impiantati i mercati che conosciamo oggi. I mercati storici attuali – prosegue la Chirco – sono “Il Capo”, “della Loggia o Vucciria”, il mercato della “Fiera vecchia” e quello dell’Albergheria o “Ballarò” e si trovano tutti lungo il letto dei fiumi Papireto, a nord, e Kemonia, a sud, poiché l’acqua era fondamentale per la produzione».
«La celebre frase “Quannu siccanu i balati ra Vucciria” (“Quando si asciugano i marmi della Vucciria”) – continua l’Architetto – stava proprio ad indicare la grande quantità d’acqua utilizzata per lavare la mercanzia ed era molto difficile che si asciugassero. Nel mondo moderno – conclude la Chirco – i mercati si sono svuotati perché non c’è più quella quantità di persone che abitava il centro storico, ma si è dispersa verso i quartieri periferici dove sorgono e primeggiano i centri commerciali».
Sulle tradizioni popolari e il consumo del cibo di strada, interviene Gaetano Basile che, con ironico sarcasmo, spiega il significato di due modi di dire palermitani, “a tavula è trazzera” (“la tavola è strada”) e “Sicci, pateddi e granci, spenni assai e nenti manci” (“Seppie, patelle e granchi, spenti tanto e nulla mangi”): «La tavola è sempre di strada e la trazziera (la strada) era frequentata da tante persone. Tutti i passanti, anche i turisti, venivano invitati a mangiare, senza pagare, durante le feste come “Il Festino”. Il secondo modo di dire, invece – conclude lo storico – era un escamotage delle nostre nonne ebree e musulmane che, come ben noto, non potevano mangiare molluschi e crostacei, ma solo pesci con pinne e squame, motivo per cui dicevano questa frase ai figli per indurli a non mangiarli».
Sulla diatriba storica tra la Sicilia Occidentale e quella Orientale, arancino vs arancina, lo storico, spiega: «Stamattina, sono stato contattato da una signora inglese che, con mio stupore, mi ha scritto: ma come ha fatto l’arancina ad arrivare a Londra? Ho trovato tracce nel 1300 e – prosegue lo storico – attraverso una lunga ricerca linguistica e terminologica, ho scoperto che, la ricetta, è stata esportata da una regina di Sicilia, Giovanna Plantageneto, sorella di Riccardo “Cuor di Leone”, moglie di Guglielmo II, che, durante la prigionia alla Zisa, ebbe contatti con alcune donne arabe che le rivelarono la ricetta».
«Sul dilemma semiologico tra il maschile o il femminile del nome – conclude lo storico – in siciliano originario, “aranciu” indicava l’arancio amaro portato dai Saraceni. A Palermo, con l’arrivo dell’arancio dolce da parte dei portoghesi, il nome diventò “aranja”, quindi, il femminile che distingue il non palermitano da quello delle altre città siciliane».
La fase conclusiva dell’incontro è stata affidata al gastroenterologo Giovanni Gatto, che ha spiegato quello che è il valore nutrizionale di ciascun alimento che fa parte della categoria alimentare “cibo di strada”, illustrandone le relative proprietà nutritive e caratteristiche organolettiche. In merito alla salubrità, alla qualità e all’apporto nutrizionale dei cibi di strada, abbiamo chiesto al dottor Gatto se ne consiglia il consumo ai giovani, consumatori fedeli dello junk food (“cibo preconfezionato detto anche cibo spazzatura”): «Lo consiglio assolutamente, anche perché – spiega il medico al GCPress – non abbiamo idea di come siano fatti i cibi prodotti nei fast food. Nella produzione locale – prosegue Gatto – seppur non sia possibile avere una tracciabilità sicura al 100%, è certo l’uso di materia prima locale. Non è, comunque, possibile – conclude il medico – fare una combinazione di cibi di questo tipo per apportare tutti i nutrienti necessari all’organismo. Tuttavia, se ad un alimento “di strada”, si aggiungono frutta e il giusto apporto di fibre, allora può essere consumato tranquillamente».