Si ha paura, si teme di peggiorare la situazione, si ha vergogna e, quindi, si preferisce subire, cominciando provare quel senso di angoscia, di impotenza nei confronti di chi ti sta violentando verbalmente, fisicamente e mentalmente. Non sempre si tratta di azioni eclatanti e aggressive, a volte si tratta invece di piccole ma quotidiane umiliazioni, sufficienti però per minare l’autostima, provocare malesseri e sintomi fisici, creare isolamento e depressione. Ecco queste sono le sensazioni provate di chi, purtroppo, è vittima del bullismo.
Per “bullismo” si intende l’insieme di tutte quelle azioni di prevaricazione e sopruso messe in atto da parte di bambino/ragazzo, definito “bullo” (o da parte di un gruppo), nei confronti di un coetaneo sia in ambito scolastico, in strada e nei luoghi di lavoro, percepito come più debole.
Un ragazzo come tanti, un ragazzo lavoratore, un ragazzo che amava i motori, ma con una personalità fragile, introversa, sensibile. Un ragazzo che, purtroppo, nelle piccole cerchie di amici finisce sempre per essere messo in mezzo, deriso, preso in giro, diventando vittima della crudeltà del gruppo. Ecco chi era Andrea Natali, 26 enne di Borgo d’Ale in provincia di Vercelli.
Andrea da pochissimi giorni si è tolto la vita impiccandosi nella sua stanza, forse stanco dei continui sfottò, stanco di avere paura, stanco di vivere nel “buio”, stanco di provare quella sensazione di terrore: incontrare per strada chi lo derideva da anni, chi lo gettava in un cassonetto dell’immondizia come se fosse davvero qualcosa da buttare, e poi ne postava le foto sui social network.
Il ragazzo, seguito da una psicologa, era riuscito un anno fa a sporgere denuncia alla Polizia postale di Biella; gli inquirenti avevano dato seguito a quella segnalazione, avevano rintracciato le immagini e avevano indagato un ex collega di lavoro e chiuso i profili Facebook e YouTube.
Il problema è che il “bullismo” non è considerato come atto criminale, invece lo è. Non si tratta di pallonate in faccia o inviti mancati alle feste, o stupide provocazioni che finiscono con il tempo. Si tratta di spingere persone a fare un salto da un balcone o dalla sedia con un cappio al collo. Fa quasi figo “bullizzare”, ridere delle persone altrui: senza avere la coscienza di capire quando si sta superando il limite. Quando lo “scherzo” si trasforma in “scherno”, “vergogna”.
I genitori vogliono giustizia. Giustizia per un figlio morto senza un perché, anzi un perché ce l’ha e si chiama bullismo. “Me l’avete ucciso, avete ucciso voi il mio Andrea!”, urla il papà sul sagrato della chiesa del paese in cui viveva.
Sicuramente il bullismo è un fenomeno da combattere e sconfiggere. E di cose ne possiamo fare. In primis: Non ignorare l’episodio o aspettare che capitino eventi pericolosi e sottovalutare il problema; parlare in modo chiaro di che cos’è il bullismo e dei danni che provoca. Stabilire delle regole anti-prepotenza che aiutino a mettere in evidenza i comportamenti che fanno star bene e quelli che creano solitudine, emarginazione e sofferenza.
Mettiamocela tutta. Partiamo da ora a combattere il bullismo. Per noi, per gli altri. Auguriamoci che mai più si verifichino queste morti e che Andrea abbia giustizia prima di tutto per lui e poi per chi gli voleva bene.
“ No al Bullismo”. La storia di Andrea morto suicida a 26 anni
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