Il giorno dedicato a san Giuseppe è stato a lungo considerato dalla chiesa cattolica come giornata di precetto, ossia inserita tra le feste solenni (come il Natale e la Pasqua). Pur avendo tolto l’obbligo della santa messa, il 19 marzo è rimasto in tutta Italia un giorno importante, ricchissimo di devozione e tradizioni. Il minestrone offerto nelle piazze dei paesi a tutti, specie ai più poveri, il falò ( vampa in Sicilia), in cui si bruciano le cose vecchie, i pani votivi che vengono benedetti, sono le principali pratiche diffuse in questo giorno.
Nella maggior parte dei paesi della Sicilia, san Giuseppe è “festa grande”, e anche a Palermo tutte queste usanze sono ancora molto sentite. In particolare, la tradizione vuole che le pasticcerie riempiano le loro vetrine di sfince.
Pare che di ogni ricorrenza il siciliano approfitti per mangiare più del dovuto, ma in realtà ogni piatto o cibo tipico di un giorno ha sempre origini remote, che spesso non si conoscono, ma che hanno creato nel tempo la perfetta combinazione cibo/festa cui non si riesce a rinunciare. La sfincia di san Giuseppe, che si presenta di grandi dimensioni e ripiena di crema di ricotta, deriva da un piatto estremamente semplice che si trova anche in altri luoghi d’Italia con altri nomi e piccole variazioni nella ricetta. Solo nella città di Palermo è possibile individuarne una grande varietà, ciascuna legata alla tradizione familiare di chi ancora le realizza in casa.
Cos’è la sfincia, probabilmente si sa. Perché la sfincia, forse no. Si tratta di un impasto adoperato per le frittelle, che si trova persino tra i pasti ebraici indicati nella Bibbia. Farina e acqua sono la base, arricchite da uova e strutto, e da tanti segreti…Le più antiche e semplici erano piccole dosi di impasto fritte e poi coperte di miele, e queste hanno origine probabilmente persiana, portate in Sicilia dagli arabi.
Millenni di storia, dunque, per qualcosa che sembra così naturale e scontato da trovare e mangiare. Il nome deriva dall’arabo ‘iisfanij (o forse da sfang), dal greco sfoungάri e dal latino spongia, tutte col significato di spugna. L’impasto, versato nell’olio caldo, gonfia e assume una forma irregolare che, a cottura ultimata, somiglia alla spugna naturale con la sua particolare alveolatura all’interno.
Non deve essere stato difficile, chissà quanti secoli fa, pensare di riempire le bolle d’aria di questa grossa frittella. Ed ecco l’abbinamento con la ricotta. Parlare di dolci con la ricotta fa subito pensare alla Sicilia, e a Palermo soprattutto.
Un’altra notizia importante, che collegherebbe questo dolce a questo periodo, proviene dai riti pagani in uso tra i romani. L’inizio della primavera richiama le festività in onore di Demetra, dea delle messi cui ci si rivolgeva per propiziare i futuri raccolti con falò e mangiando un impasto di farina fritto nell’olio. Data la bontà di questo dolce da tempo le pasticcerie lo realizzano in dimensioni molto ridotte per venderlo quasi tutto l’anno, ma nel suo grande formato (può toccare i 15 centimetri la dimensione maggiore) si mangia solo una volta. Forse perché, in qualche modo, anche il palermitano sa riconoscere il suo limite o, più verosimilmente, sa che le cose sono più belle e buone se per mangiarle aspetta un’apposita ricorrenza. E ricotta, gocce di cioccolato, granella di pistacchi, ciliegia e arancia candite sembrano anche loro aspettare la stessa occasione per sembrare ancora più buone di come il palato le ricordi, a patto che la sfincia gonfi e riesca come si deve!