Non c’è che dire, ma i numeri sono numeri. Nel ventesimo rapporto presentato dalla Demos su “Gli Italiani e lo Stato”, i cittadini confermano, come per il 2016, una fiducia da podio d’onore alla Scuola. Ai due gradini più alti ritroviamo, proprio come l’anno scorso, Papa Francesco e le Forze dell’Ordine, mentre agli ultimi quattro posti, di questa particolare classifica a sedici voci, ci sono nell’ordine: lo Stato, le Banche, il Parlamento e i Partiti. Il dato è confortante per la scuola d’ogni livello ed età e sottolinea, nell’andamento decennale 2007-2017, che la crescita fiduciaria e stata anche a scapito di altre due istituzioni: il Presidente della Repubblica e la Chiesa. Per restare in territorio scuola, il divario nel grado di soddisfazione dei servizi offerti da quella pubblica rispetto alla scuola privata mostra ampi margini di differenza. Nel 2017, infatti, il 45% del campione intervistato si è dichiarato “moltissimo” o “molto soddisfatto” della scuola pubblica contro il 36% di quella privata. Nel 2016, lo stesso dato, s’attestava al 40% contro il 35%. Dunque, in entrambi i casi, si registra un maggiore e progressivo appeal della prima sulla seconda. Non c’è che dire, ma i numeri sono numeri, anche se la musica cambia (e non poco) guardando dentro alla realtà vissuta. La necessità, dunque, di ascoltare le “voci di dentro”, cioè coloro che la scuola la fanno e vivono giornalmente, è indispensabile. Nell’arco di ogni legislatura, con il presupposto di dar linfa nuova alla scuola, non c’è ministro che non si sia lasciato tentare dalla necessità di riformarla; magari fomentato da qualche malumore territoriale. Per carità, l’operazione è legittima, ma se c’è di mezzo l’innovazione a tutti costi e a vantaggio della solo numerica, che non prefigura gli eventuali effetti negativi sulle variabili umane, qualche serio dubbio resta. Qualcosa non torna, dunque, e l’ultima fiducia incassata dal sistema scuola rischia di rimanere un contentino privo di bussola. Come cercare, dunque, la “buona scuola” e senza allontanare dai programmi l’uso del pensiero, le conoscenze e i contenuti fondamentali e senza quelle proposte marginali, che, spesso, creano confusione e passività negli studenti, malumore tra i docenti, e portano la scuola all’empasse? I banchi di quella istruzione maestra di vita si vanno trasformando da tempo e da modello positivo “palestra per la mente” scivolano sempre più a negativo modello “azienda-scuola” accantonando, o ritenendo superato, l’umanesimo. Sarà il mercato globale, ma tutto questo ha generato un impulso riformista e un affastellamento raccappriciante, che è un vero e proprio rompicapo per i meno addetti ai lavori e un dedalo di acronimi, per dirigenti scolastici e docenti, del tipo POP (piano didattico personalizzato), BES (esigenze educative speciali), PNSD (piano nazionale scuola digitale), ASL (alternanza scuola lavoro) e, fino all’ultima arrivata, e contestata, INVALSI, cioè un’insieme di prove di valutazione nozionistica degli alunni, che tiene in poco conto le loro individualità e storie. Chi ama insegnare fa i conti con tutto questo. Non ci sono numeri, ma esistenze che cambiano e non sempre in meglio, purtroppo. Ed è in questo contesto, nonostante i campioni d’indagine e le notizie scoop, il frasario ad effetto e i modelli messi fuori moda alla velocità d’uno zip, come, ancora, le tante promesse e prospettive disattese. che bisogna chiedersi: qual è il vero sentimento diffuso nei confronti della Scuola? Non esiste una sola risposta, ma tante. Basta affinare le proprie antennine, capire e sentire, leggere e provare a smettere i propri vestiti, almeno per un attimo, immedesimandosi nell’altro, cioè in chi la scuola la fa e tenta di costruirla giorno dopo giorno; magari anche lasciando al palo l’insistente voglia di scoraggiarsi e buttare tutto alle ortiche. Sono tanti i modi, i canali di conoscenza per approfondire la questione. Se ne suggerisce uno, a concludere, semplice, senza tecnicismi o fronzoli e dunque alla portata di tutti: un piccolo accurato pamphlet, centocinque pagine in formato mini-book, dall’ironico titolo: “La cattiva scuola” (Edizioni Tlon, Roma). Scritto a quattro mani da Stefania Auci e Francesca Maccani – insegnante di sostegno e palermitana, la prima, e docente di lettere di origini trentine, la seconda –, con questo minuscolo testo, entrambe, hanno srotolato il piccolo gomitolo delle loro esperienze offrendone la punta come gesto d’amore. Lo precisano le due stesse autrici: “questo testo vuole essere una dichiarazione di amore e di resistenza, per i tanti colleghi che, come noi, entrano in classe ogni giorno e non si tirano indietro nonostante le difficoltà e la frustrazione” Dunque, siamo in presenza di un vademecum utile, specie a quelle famiglie insoddisfatte e fuori dal campione d’indagine, per riconsiderare le necessità delle nuove (e non più tanto nuove) docenze. Il maestro Alberto Manzi, noto al pubblico televisivo degli anni sessanta per aver portato, con la trasmissione “Non è mai troppo tardi”, l’insegnamento nelle case di un’Italia con elevati tassi di analfabetismo, affermava: “Il maestro non può insegnare pensieri, ma deve insegnare a pensare”. Ritorniamo alla nostra testa, dunque, e riflettiamo anche aldilà dei campioni intervistati e dei numeri.
Stefania Auci, vive a Palermo ed è insegnante di sostegno. Lavora presso istituti professionali e di istruzione secondaria superiore ed ha acquisito esperienza in ambienti difficili e deprivati dal punto di vista sociale. E’ autrice di romanzi – l’ultimo per l’editore Baldini & Castoldi, anno di pubblicazione 2015, è intitolato “Florence” – ed ha al suo attivo collaborazioni con blog e riviste letterarie on line.
Francesca Maccani, vive a Palermo dal 2010. Docente di lettere nella scuola secondaria, ha insegnato sia in Trentino, sua terra d’origine, che in Sicilia. Fin dal suo arrivo sull’Isola, sta sperimentando sul campo le differenze sociali e strutturali della scuola italiana ai due antipodi opposti dello stivale italiano. Appassionata di lettura, cura una pagina su facebook dal titolo “Francesca leggo veloce”.