Ci sono quei libri che scuotono, sfidano la coscienza a rimpicciolirsi e adattarsi alle pieghe del racconto; la costringono poi a dilatarsi e a specchiarsi nella storia, come se chi scrive stesse raccontando di noi, del nostro dolore. Ci sono quei libri che costringono a fare i conti con la propria sensibilità davanti ad una tragedia individuale.
Per Sara Gamberini, autrice del libro “Maestoso è l’abbandono” (pubblicato da Hacca Edizioni), la scrittura deve essere stata un’operazione faticosa. Lo si intuisce dal percorso impervio che fanno le parole, i pensieri, che si intersecano in ricordi e rievocazioni, in un flusso di coscienza che torna indietro fino all’infanzia della protagonista e poi risale, riemerge per prendere una boccata d’aria, per prendere fiato e immergersi nuovamente.
La sua è una scrittura potente. Il nucleo del romanzo sembra ruotare intorno alla “relazione” della protagonista con il suo analista, che vuole abbandonare, ma diventa chiaro dopo poco come “Maestoso è l’abbandono” sia in realtà un dialogo tra l’io narrante e se stessa, in un continuo rimando a sensi di colpa, relazioni fallite, paure e traumi. Come quello dell’abbandono.
L’abbandono è il sentimento centrale che tesse le fila del racconto e della sua vita, di Maria. Nella convinzione che tutto sia destinato a finire, è alla mascherata ricerca di relazioni e verso il fallimento delle stesse. La dimensione dell’abbandono è qualcosa di tangibile, una realtà psichica da cui la protagonista non riesce a congedarsi. Tutte le strade portano all’abbandono, scrive.
La ricerca di punti fermi, convinzioni salde a cui aggrapparsi – prima il cattolicesimo poi l’animismo, la passione per la filosofia buddista -, testimoniano la necessità pressante della protagonista di trovare rifugio in una credenza, contrariamente allo spirito libero, irraggiungibile e mistico della madre.
Da lì, da questa relazione quasi inconsistente con la madre, nasce il turbamento di Maria, la sua difficoltà di adattamento alla vita, la sua propensione a spezzare i legami. Alla madre è destinato un amore sofferto, una sofferenza che influenza ogni cosa.
In un costante tentativo di categorizzare i sentimenti e nel rendersi conto, invece, di non esserne in grado, di essere una “donna estrema a causa della sua passione a vuoto”. I sentimentali anonimi sono i rivoluzionari di questo secolo, gli indecifrabili. I sentimentali spaesati che amano senza sosta, gli unici ribelli, gli unici contestatori rimasti.
Impegnata alla scoperta dei confini del proprio io, che traghetta verso il desiderio di condividere un amore e nell’essere incapace di farlo, Maria si impegna in una cosciente presa di distanza dal mondo e dalle persone che le provocano un forte turbamento.
Dall’inizio fino alla fine del romanzo, Maria è guidata da questo vuoto incolmabile, dall’assenza della madre, da questa eredità sentimentale che l’ha resa così fragile. Resta in lei, però, il desiderio delle piccole felicità inequivocabili, degli elementi essenziali, non complicati.
Quando vagavo per troppo tempo attorno ai pensieri sulle armonie celesti, mi ritraevo per paura del vuoto, come se non fosse mai possibile consacrarmi a un unico punto di vista. Mi aggrappavo alle immagini concrete, una teiera, una federa di lino, i miei libri. Mi chiedevo ma tu vuoi davvero passare la vita sotto un fico a gambe incrociate?
Il suo tormento si placa, a tratti, verso la consapevolezza di un nuovo bisogno, verso la necessità di una concretezza per esorcizzare il dolore di un amore non corrisposto.
La scrittura di Sara Gamberini in “Maestoso è all’abbandono” è puntellata da un tocco poetico, una lingua sofisticata ed evocativa. La trama è semplice, ma i sentimenti non lo sono mai.