“Chiamami col tuo nome”, del palermitano di nascita Luca Guadagnino, già miglior film al Gotham Awards e candidato a ben quattro premi Oscar (miglior film, migliore attore protagonista, migliore sceneggiatura originale e migliore canzone originale), chiude idealmente la trilogia cinematografica che il regista ha dedicato al desiderio, iniziata nel 2009 con “Io sono l’amore” e proseguita nel 2015 con “A Briger Splash”.
Il film tratto dall’omonimo romanzo di successo di André Aciman (pubblicato nel 2007) e adattato da Guadagnino stesso insieme a Walter Fasano e con la preziosa sceneggiatura del grande James Ivory, racconta la storia sentimentale-amorosa, ambientata in un’estate italiana del 1983, tra un adolescente e uno studente universitario entrambi di origine ebraica.
Il film rappresenta, a partire dalle statue greche dei titoli di testa, un chiaro omaggio alla cultura classica, all’idea assoluta della bellezza intesa in senso oggettivo, in quanto essa è vista come proprietà esistente nella natura e quindi situata ovunque. Per il protagonista Elio (Timothée Chalamet), diciassettenne, musicista, decisamente colto per la sua età, che passa il tempo a trascrivere musica, sono appena iniziate le vacanze estive nella splendida villa di famiglia nel Ponente ligure.
Atmosfere e arredi che ricordano quelli creati da Visconti: stanze che si intersecano l’una dentro l’altra, porte che si aprono e si chiudono in sordi cigolii, antichi solai pieni di polvere, libri aperti su sontuosi divani e un pianoforte a coda che diventa a tratti palcoscenico per le esibizioni del giovane padrone di casa. Elio, figlio di un brillante professore universitario di archeologia e di una colta madre di origine francese, aspetta come ogni anno, il nuovo ospite estivo, Oliver (Armie Hammer), un trentenne studente newyorchese che dovrà completare la sua tesi di dottorato.
Oliver conquista tutti, la sua bellezza fisica, i suoi modi gentili e disinvolti, sembrano incarnare l’ideale kalokagathìa (bello e buono) di Platone. La prima parte del film si concentra proprio sulla narrazione del bello che ci circonda. Guadagnino usa la macchina da presa come un antico cantore greco usava la sua lira.
Il patos non è moto interno dell’anima, piuttosto si traduce in gesti, in lente e minuziose descrizioni. La splendida fotografia di Sayombhu Mukdeeprom, la scelta della musica, tutto diviene, sia per lo spettatore che per i protagonisti, equilibrio simmetrico. Azioni, paesaggi, monumenti, laghi, nuotate, conversazioni, partite di tennis si traducono in eroiche gesta che non possono che condurre Elio e Oliver all’Amore. Così anche noi rimaniamo sospesi, l’occhio del regista non si sofferma sul piacere, ma lo sublima nei chiaroscuri della natura , nel rumore delle fronde degli alberi, nella bellezza plastica dei corpi.
L’avvicinarsi, l’allontanarsi e poi l’avvicinarsi ancora dei due innamorati, che dopo aver fatto l’amore guardandosi negli occhi si scambiano reciprocamente i loro nomi, ci riporta alla consapevolezza, qualora l’avessimo perduta, del corpo come vero e unico strumento del piacere in una visione olistica dell’amore stesso. Perché la domanda che Elio si pone alla fine, e che tutti noi ci siamo almeno una volta posti nella vita, è che cosa resta dopo l’amore.
È il padre di Elio a darci una convincente risposta nel bellissimo dialogo finale con il figlio. Un discorso pedagogico che genitori ed educatori dovrebbero imparare a memoria, che esorta a non inaridirsi, a non diventare insensibili perché il tempo passa: “Ricordati, cuore e corpo ci vengono dati una volta sola (…) di vita ce n’è una sola e prima che tu te ne accorga ti ritrovi col cuore esausto e arriva un momento in cui nessuno lo guarda più il tuo corpo e tantomeno vuole avvicinarglisi. Adesso soffri. Non invidio il dolore in sé. Ma te lo invidio, questo dolore….”