Il Tamerlano elisabettiano di Marlowe, riletto e abilmente rivisitato per le scene da Luigi Lo Cascio, è un prodotto che il Teatro Biondo di Palermo, sotto la lodevole direzione di Roberto Alajmo, ha offerto al pubblico nel cartellone stagionale di quest’anno e che mette in evidenza la forza e le qualità attoriali delle produzioni nostrane. Il Tamerlano di Lo Cascio mette in scena una livella del dubbio umano. Nessun uomo con la sua forza detiene la chiave
della certezza e se crede di averla in pugno è un pazzo. Nel Tamerlano di Lo Cascio c’è un forza invisibile che lega empaticamente lo spettatore non solo ai deboli vinti, ma anche al forte vincitore, alla fine dei suoi anni, pervaso dalla sua aleatorietà e consumato dalla sua stessa bramosia di potere. Nulla è perenne, tutto è condannato a finire. Cosicché il dubbio delle nostre micro-storie di oggi si incrocia con i dubbi della macro-Storia di ieri e il dubbio del modello rappresentato in scena, nel Tamerlano di oggi, si scontra, inevitabilmente, con la certezza elisabettiana del protagonista di ieri. Insomma, pur avendo riguardo per Marlowe: il Tamerlano del Biondo di oggi è a noi più vicino e convincente. Non siamo noi, infatti, ad essere più crudeli, ma il Tamerlano di Lo Cascio ad essere più umanizzato dal dubbio. Nessuno, infatti, è baciato dalla fortuna perenne e nessuno, in
aggiunta, ha con sé “il progetto” da imporre (o far credere e rendere buono) su tutti. La guerra come la vendetta non battono moneta per comprare la felicità. L’uomo può solo ingannarsi di raggiungerla, ma come merce la felicità scarseggia, proprio come il tempo, che appartiene alla morte e che bussa puntualmente a riprenderselo. Nonostante la sua forza, il Tamerlano di Lo Cascio è così un condottiero al crepuscolo, che ci fa vedere, in poco meno di tre ore, anni di glorie passate, terre conquistate, intimi sentimenti perduti nel sangue del campo di battaglia, nel tradimento punito, nel ladrocinio della malattia. Un Tamerlano, dunque, che nonostante tutto non raggiunge mai l’ultimo confine da abbattere. Tamerlano ha un sogno: quello di un grande impero che metta ordine e limite alla Storia e ne sia un punto fermo. Un’ambizione questa che si ripeterà attraverso i secoli mai fermandosi e semmai replicandosi nel potere di sempre e nelle sacche di dis-umanità, anche dei nostri giorni. Uno sfrenato sogno che supera ogni conquista e che supera tutti i confini, ma non quello della mortalità dell’uomo. Tamerlano, in fondo, più o meno consapevolmente sogna una globalizzazione ante-litteram di cui solo lui sia centro e amministratore. Eppure, come il figlio superstite, distrutto e addolorato per la precoce perdita del giovanissimo fratello Sharuk – morto in battaglia per il padre – gli rammenta: “Tu sei uno solo. Volevi agguantare il mondo e invece stringi ora il vento” e questo nei pochi attimi che precedono la sua liberazione dal dubbio umano per mano dello stesso padre, con una punizione di
un interlocutore silente e senza via di scampo. Prima di uscire fuori dalla scena del mondo, Tamerlano soppesa con la lente del dubbio la illusorietà della propria condizione, non c’è immortalità sotto la candida neve che precede la deserta distesa di ghiaccio sconosciuta che lo porta in un altro dove – ade, inferno o geena -, dove lui, allo stesso modo degli altri uomini vinti e di cui ha succhiato la vita, sarà solo “una cosa che non respira”. La macro-storia del mondo è stata anche scritta da ‘campioni’ come Tamerlano, che, nel bene e nel male, rappresentano tutte le nostre oscurità possibili e che nei loro eccessi tengono a sé nascosto, attraverso un’esorcizzante crudeltà, la loro fragilità. Chi riscrive di questi ‘fenomeni’ poi, e indipendentemente dalla polarità del protagonista e dalla incidenza delle sue azioni nella Storia e nelle vite dei suoi contemporanei, non può non tenere in conto come il negativo protagonismo affascina proprio come il fuoco, in ogni tempo. Un fascino perverso, strano, concretamente vero questo e di Tamerlano, reso da un gruppo di attori convincente e da un bravissimo Vincenzo Pirrotta – nel ruolo di protagonista –, un condottiero, che sul finire dei suoi giorni tentenna e vede la sua inattesa paura come un negativo presagio. Gli innesti, infine, di quella
contemporaneità che a qualcuno ha fatto storcere il naso, fatta dei dialetti, dei soldati-fantasmi di ogni tempo liberati dalla carneficina e della giullaresca voce del fante, che spiega come il suo combattere sia solo un rimedio al mal di piedi che lo affligge dopo la lunga marcia forzata, non disorientano lo spettatore semmai lo sospingono ancor più nel vortice di una grande impostura, di una cruda folle illusione d’eterna esistenza che si smaterializza sotto la candida neve. E poi a concludere c’è l’altro teatro; quello visto da una sospesa gradinata di una galleria, dove la visione spazio-temporale di una rappresentazione scenica si amplia e si dilata per lo spettatore come me, che a tutto questo guarda, mentre fuori scorre un’umida domenica. Dal palcoscenico alla sala, da prima a durante e a dopo la piecé, l’occhio spazia dal teatro (degli attori) al teatro (del pubblico) e la
scomodità delle sedute dall’alto e senza le imbottiture e la doppia altezza degli scalini fino alle prime gradinate in galleria, sono il naturale prezzo da pagare per questo godibile privilegio di veduta. Cosicché, per lasciarci alle spalle la illusoria globalità ante-litteram del nostro Tamerlano, preso in prestito dal teatro elisabettiano e per una nuovo viaggio scenico a Palermo, dalla platea assisto a un’altra messinscena, frutto della globalizzazione di oggi, a un’altra conquista illusoria che conduce alla socialità virtuale e di lì al “vampiring”. Non induca in errore il termine inglese, perché nulla ha da spartire con le atmosfere elisabettiane, ma con la nostra contemporaneità. Questo fenomeno, non più nuovissimo, si replica (e oramai moltiplica gli adepti) di teatro in teatro e fino ai cinema (e perfino in chiesa) ed è il frutto della dilagante “touch-screen-mania”, delle febbrili convulsioni da social, della dirompente schiavitù da smartphone, che porta (ahimè) sempre più crescenti schiere di spettatori-utenti nel buio a farsi distrarre e a distrarre il vicino col display acceso nel buio e chattando. Un piccola luce di illusoria conquista del mondo quest’ultima, che imbarazza ciascuno e che il Tamerlano storico non avrebbe messo in conto tra le cupe ombre del suo dubbio.