Vi sarà capitato, camminando in centro città, di vedere delle strane elevazioni in corrispondenza della cinta muraria della città vecchia, o persino sparsi in vari punti della città, delle costruzioni strane che rievocano delle torri e/o dei castelli in miniatura.
Queste costruzioni non sono altro che dei “castelletti” o “torri d’acqua”.
Vediamo di capirne di più: fino al 1885, l’acqua veniva portata nelle case dei palermitani mediante un sistema di distribuzione detto appunto a castelletti; si trattava di un sapiente metodo, di antica concezione, la cui origine, secondo alcuni storici, potrebbe risalire alla dominazione araba in Sicilia, e che è stato utilizzato a Palermo, dal quattrocento sino agli inizi del novecento, per smistare l’acqua nelle abitazioni. Il sistema, sfruttando il principio dei vasi comunicanti, permetteva all’acqua, incanalata alla sorgente in tubature d’argilla sotterranee, dette incatusati, e raccolta poi nei cosiddetti ricettacoli magistrali, di essere sollevata tramite le urne o castelletti conservando una pressione tale da poter raggiungere le diverse zone della città. L’acqua, infatti, veniva condotta attraverso tubi conici d’argilla, i catusi, sulla sommità di queste torri, costruite in maniera tale da raggiungere un’altezza pari a quella della sorgente; l’acqua, quindi, sempre tramite un sistema di tubi, raggiungeva le singole abitazioni.
Ancora oggi, a Palermo, si possono scorgere le vestigia di questo sistema di distribuzione; numerosi castelletti, infatti, sono attualmente visibili in molte strade della città. Molto spesso queste strutture, soprattutto nei primi anni del novecento, con l’avvento dello stile Liberty, furono costruiti castelletti in stile floreale. Questo sistema andò in disuso quando si decise di sfruttare, per il fabbisogno idrico della cittadinanza, l’acqua proveniente dalle sorgenti di Scillato, alle falde delle Madonie.
Vediamo in dettaglio questo sistema di smistamento dell’acqua, il sistema detto a “castelletti”, in uso a Palermo fino alle soglie del XX secolo, ha origine antiche; alcuni studiosi, infatti, ritengono che si tratti di un ingegnoso meccanismo messo a punto in epoca araba, altri, addirittura, lo fanno risalire al periodo romano. La seconda teoria trova conferme sia in una delle denominazioni che designano queste strutture, castella dividicula, nome di chiara radice Latina, sia nel ritrovamento di un sistema di distribuzione dell’acqua come questo nei ruderi di Pompei. Il sistema si serviva del principio dei vasi comunicanti facendo in modo che l’acqua, che sgorgava da sorgenti poste ad una determinata quota, fosse condotta sulla cima di torri di raccolta, poste ad un livello piezometrico equivalente alla quota della sorgente di partenza, in modo da poter ottenere un flusso praticamente continuo di acqua. Scendendo nel dettaglio, possiamo ricostruire tutto il percorso dell’acqua, dalla sorgente alle utenze finali; alla fonte, il liquido veniva imbrigliato in condutture sotterranee, scavate nella roccia, dette incatusati, che lo riversavano nel ricettacolo magistrale, da cui veniva smistato nelle diverse direzioni. Attraverso tubi in argilla, i catusi, che formavano fasci detti doccionati, l’acqua raggiungeva, quindi, la città, e veniva condotta sulla sommità dei castelletti primari o torri piezometriche, alti edifici in mattoni a sezione solitamente poligonale; spesso, i castelletti erano collocati al di sopra delle mura della città, per rendere più facile il raggiungimento di altezze piuttosto elevate. Sulla cima di ogni torre d’acqua, l’acqua, raccolta in contenitori detti urne, per tracimazione si immetteva nuovamente nelle tubature, per raggiungere la sommità dei castelletti secondari, che si trovavano, di solito, accostati alle pareti esterne degli edifici; da qui l’acqua scorreva nuovamente nei catusi, fino a raggiungere, con un flusso ancora forte, le singole abitazioni, o le fontane da cui la popolazione poteva attingerla.
Le condizioni igieniche garantite da tale sistema di distribuzione non erano delle migliori, i tubi in argilla e soprattutto le giunture erano permeabili. L’acqua veniva venduta ai privati attraverso un meccanismo piramidale, che prevedeva che il proprietario stipulasse dei contratti con i gabellotti, che a loro volta, vendevano le forniture ai fontanieri che, con l’aiuto di garzoni, si occupavano della distribuzione ai cittadini. Spesso i garzoni si rendevano colpevoli di furti d’acqua; questa disonesta attività fruttò̀ loro il nomignolo di sanguisughe. La quantità ̀d’acqua erogata a ciascun privato era regolata facendo defluire il liquido in un sistema di tubi conici divergenti, anche questi di argilla, che permettevano il calcolo del volume di liquido da consegnare, determinato dal calibro del tubo; le unità di misura utilizzate non erano quelle attuali, ma le più comuni erano la penna (0,033 l/s), il darbo (2,3 l/s), la zappa (8,53 l/s). Quando il prezioso liquido raggiungeva le abitazioni, la popolazione era solita conservarlo in giarre, contenitori di terracotta o di zinco, poste fuori dalle finestre delle abitazioni, esposte alle intemperie e coperte soltanto, in maniera piuttosto precaria. I castelletti facevano parte di tre corsi d’acqua diversi, il Campofranco, il Gesuitico ed il Gabriele.
Non tutti questi edifici si sono conservati nelle medesime condizioni; alcuni sono più che ruderi, mentre altri sono in discrete condizioni.
Tra i più interessanti: quello in piazza Porta Montalto; si tratta resti di una torre d’acqua che si trova al di sopra delle mura cittadine, si notano ancora oggi le vestigia dell’antica struttura e delle torri d’acqua che trovavano posto al di sopra delle mura; si possono vedere chiaramente i fasci di catusi che affiorano dal paramento murario, e le costruzioni in mattoni a pianta quadrata che svettano al di sopra della cinta muraria. Sempre in una posizione simile, troviamo i resti di torri d’acqua a Porta Sant’Agata, sulle mura in prossimità di questa porta si notano con difficoltà le parti superstiti di torri d’acqua meglio conservati i tubi in argilla che affiorano dal paramento murario che servivano sia per alimentare le urne sia per portare l’acqua alle singole utenze dell’antico quartiere dell’Albergheria.
Altri esempi di torri distribuite nel territorio cittadino un tempo campagna sono: in piazza Ottavio Ziino nella borgata Malaspina, che da questo castelletto, e da altri che sicuramente sorgevano nei pressi, era rifornita d’acqua, soprattutto per uso agricolo. Un altro esempio di torre d’acqua è quella che sorge in via Dante, nei pressi di via Filippo Parlatore.
Ovviamente, è nel centro storico della città̀ che la quantità di antiche torri è maggiore, oltre quelle in prossimità delle porte Montalto e Sant’Agata, troviamo al mercato di Ballarò, in piazzetta Sette Fate, adiacente a piazza Santa Chiara, una torre d’acqua ben conservata in stile Liberty. La torre si doveva trovare, originariamente, nei pressi delle mura della città, posizione, la zona di piazza Santa Chiara, infatti, come riferiscono gli storici, doveva trovarsi “a ridosso di un tratto delle distrutte mura medievali”. Sempre nel centro storico di Palermo, alle spalle di corso Tukory, si trova la torre di via Siciliano Villanueva, nei pressi di via San Saverio; la torre è in stato di degrado. Alle spalle di piazza Indipendenza, troviamo due costruzioni abbastanza vicine: si tratta delle torri d’acqua di piazza Cappuccini, di fronte all’ingresso delle catacombe, in via dei Cipressi. I due castelletti, che si trovavano sul Corso Campofranco, sono in uno stato di conservazione relativamente buono; la torre di piazza Cappuccini mostra ancora la scala in metallo che veniva utilizzata quotidianamente dai fontanieri per raggiungere l’urna e regolare la quantità di acqua da smistare ad ogni utente. Nel quartiere arabo della Kalsa, un’altra torre d’acqua in cortile Giara a Santa Teresa, in buono stato, un’altra si trova nei pressi di Porta Reale una delle più recenti, il castelletto è in molte parti ancora integro; si nota all’esterno del paramento murario che celava l’urna, un fitto reticolo di catusi che conducevano l’acqua sulla cima della torre e poi di nuovo giù, verso altri castelletti o verso le singole utenze della zona. Sono ancora presenti, inoltre, i sostegni metallici che venivano usati dai fontanieri per poter accedere alla parte superiore della struttura.
Altre torri si trovano nelle vicinanze di porta Nuova inglobate all’interno di un caseggiato basso tra la piazza Indipendenza e corso Alberto Amedeo, non facilmente visibili, sono in cattivo stato di conservazione ma si scorgono ancora le urne ed le scale in ferro che servivano a raggiungere la sommità.
Bibliografia:
“Palermo città d’acqua” di Maria Di Piazza, ed. Gulotta editore
“Cenni storici dell’acquedotto di Palermo” di G. Adelfio
“Ricca di fonti” T. Di Cara, G. Romano