Palermo 01. 04.1951 – Era il 1 aprile del 1951, erano le ore 10.07, e una bianca Alfa Romeo 1900, in testa alla XI^ edizione del Giro di Sicilia, percorreva a tutta velocità la rettilinea Via Castelentini di Priolo Gargallo, in provincia di Siracusa, alla guida il Barone Stefano La Motta, allora 31enne, al quale aveva da poco ceduto il volante Francesco “Ciccio” Faraco, pilota e preparatore 43enne, originario di Mazzarino ma da sempre residente a Palermo. Sull’asfalto di quel polveroso e sconnesso rettilineo, diversi dossi.
Non si sa perfettamente cosa sia accaduto quella mattina, si sa solo, dalle informazioni da me raccolte, che il motore resta in acccelerazione al pieno di giri, come se quella curva la in fondo non ci fosse, come se, sempre dai racconti sempre da me raccolti molti anni dopo, il pilota non vedesse più nulla, anzi, sembrava essersi accasciato sul sedile.
Il Comandate del Carabinieri di allora, certo Blunda, mi ha raccontato che Ciccio lo guardò per un attimo e sembrò fargli cenno con il capo, come se avesse visto il Maresciallo della Benemerita, portarsi le mani ai capelli, tanto da mettersi quasi in piedi all’interno dell’abitacolo, afferrando poi il volante e tentando, con una una repentina, quanto disperata, sterzata, di far compiere la giusta traiettoria all’Alfa 1900, auto per quell’epoca, poderosa, pesante e potente, ma poco maneggevole, dotata di cambio al volante.
L’auto, sembra rimbalzare sulle gomme del lato dove sta seduto Ciccio Faraco, poi l’impatto, duro, violento, devastante, sul muro di cinta della casa della famiglia Mazziotta. Il muro si sbriciola e precipita sulla vettura, quando comunque i due piloti sono già deceduti.
Come se non bastasse, a rendere già incredibile la tragedia, l’Alfa 1990 s’incendia nel vano motore, ed è sempre il Maresciallo Blunda, a conferma dell’abnegazione al dovere da parte dei Carabinieri, che con la sua giacca d’ordinanza e con l’auto di altri Cittadini presenti, i quali, non avendo altro modo per spegnere le fiamme, con le mani raccolgono terra e pietruzze, e le gettano sul fuoco, che per fortuna si spegne.
Sempre coordinato dal Sott’Ufficiale, passano alla tragica operazione di estrazione dall’abitacolo contorto dell’Alfa, dei due driver siciliani, costatando che per loro è finita. Il Giro Automobilistico di Sicilia, gara di durata, ambita quasi quanto la Targa Florio, gara anch’essa partorita e voluta da Vincenzo Florio e dal nipote Raimondo Lanza di Trabia, entra di diritto negli annali delle tragedie che hanno segnato lo sport motoristico.
Nel frattempo, mentre la tragedia si è compiuta, Savoia, una bambina di 7 anni, gioca sul marciapiede di Via Giovan Battista Filippo Basile, nella zona di Palermo nota come “boscogrande”, è felice, saltella sui quadrati numerati, disegnati a terra con il gesso, ma un’altra bambina della stessa età, con un piglio cinico quanto inconsapevole, tipico di quella inconsapevolezza spietata che anima i bambini, le urla “tu ridi e giochi e nel frattempo tuo padre è morto”. Savoia, mia madre, le risponde a tono “mio padre è vivo è sta correndo stupida”, ma non sa che quell’altra aveva ascoltato poco prima il “Gazzettino di Sicilia” alla radio con la breve cronaca che annunciava la morte di Stefano La Motta e di Francesco Faraco, suo padre, appunto.
Questa in sintesi, la tragedia che si consumò 70 anni fà come oggi e che cambio, sicuramente la storia della famiglia di mia madre, passata in un attimo, dalle stelle alle stalle, come dice sempre mia mamma e quindi e forse anche la mia, nonostante io fossi venuto alla luce 7 anni dopo quel tragico incidente di gara.
Lo scrivo perchè tante volte ho ripensato a quello che quel nonno, mai conosciuto, il quale alla mia nascita, avvenuta il 1 maggio del 1958, avrebbe avuto appena 51 anni, avrebbe potuto narrarmi. Probabilmente avrebbe potuto raccontarmi, mostrarmi e farmi vivere, quei tempi epici e gloriosi dell’automobilismo ed invece sono cresciuto nel suo ricordo, tramandatomi da mia madre e da alcune delle sue sorelle, sono cresciuto con quell’album di fotografie bellissime, tutte in bianco/nero, le quali lo ritraggono accanto a personaggi importanti dell’Automobilismo mondiale come Tazio Navolari e Gigi Villoresi ed accanto a piloti siciliani del calibro di Antonio Pucci, poi vincitore, con la Porsche 904, della Targa Florio del 1964, migliore amico di mio nonno, suo “allievo di guida”, come egli stesso racconto alla rivista “La Manovella a ruote e raggi” e con il quale, dopo la breve parentesi del 1934 che lo vide prendere parte alla “Targa” con Costantini Magistri, partecipò a diverse, sfortunate, edizioni del Giro di Sicilia.
Guardo e Riguardo quelle foto, da me gelosamente conservate e lo vedo sorridente con gli amici, lo vedo felice all’arrivo della X^ edizione dei Giro di Sicilia, gara nella quale giunse 8° assoluto al traguardo, guidando la bella Cisitalia “Nuvolari” da egli curata nella preparazione motoristica e prestatagli, per l’occasione, da Antonio Pucci, una vettura, tutto sommato piccola, di appena 1100 cc. con la quale ottenne quello strepitoso risultato che gli consentì, sommato ai punteggi ed ai piazzamenti accumulati in altre competizioni siciliane, di laurearsi “Campione Siciliano” della Classe 1100 sport del 1950. Osservo le foto che lo ritraggono, nel giorno di Pasqua del 1950, allorquando prese parte, vincendo la classe 1100cc alla crono del Monte Pellegrino, rifilando, con una Fiat 1100, oltre 2″ ad Antonio Di Salvo, al volante di una identica vettura e staccando, con distacchi ben più duri, i vari Fantauzzo, Mineo, Dabbene, D’Alba, Minneci, Di Stefano e Reginella. Osservo, infine, la foto che lo ritrae lì, sdraiato per terra, accanto al suo compagno di sventura, l’auto ancora fumante ed un rigagnolo di sangue che avvolge i due corpi, una foto che mai pubblicherò e che a pochi ho mostrata, una foto che mi venne consegnata tra la folla degli abitanti di Priolo, il 1 ottobre 1995, scesi per strada in occasione della Festa dell’Angelo Custode, patrono della cittadina aretusea e che erano giunti in Via Castelentini per ricordare La Motta e Faraco, in occasione della posa della lapide che sono riuscito, dopo varie peripezie e grazie anche all’aiuto di una Lettrice del Giornale di Sicilia, a far ricollocare sul luogo dell’incidente. Infatti, quella Signora a me rimasta sconosciuta, venuta a sapere della battaglia che mi contrapponeva al Sindaco del Comune di Priolo Gargallo, il quale negava l’esistenza di una lapide che ricordava i due piloti, lo smentì amaramente, inviando al Quotidiano palermitano, una foto che ne attestava l’esistenza sul luogo dell’incidente.
La mia vita, scrivevo prima, è probabilmente andata diversamente da come forse avrebbe dovuto, probabilmente, con lui in vita, avrei iniziato ancor prima del 1981, a gareggiare ma, purtroppo per me, non l’ho conosciuto di persona, nonno Ciccio, ma da lui ho ereditato, umilmente la passione per le quattro ruote, senza essere paragonabile, per carità, all’unico ed inarrivabile Nino Vaccarella o ad altri bravi piloti siciliani come ad esempio “Amphicar” (Eugenio Renna) o, tanto per citarne alcuni, “Apache” (Alfonso Merendino), Enrico Grimaldi o addirittura Benny Rosolia. Da lui, dal nonno e grazie a quelle foto che lo ritraggono in gara, ho ereditato la passione per le gare automobilistiche, una passione che mi ha portato, così come portò mio nonno, nell’ormai lontano 1950, a vincere diversi Titoli di Campione Siciliano ed anche due Coppa CSAi di zona e due Coppa ACI Sport di zona, premio di un certo prestigio sportivo, conferiti a chi vince una sorta di, definiamolo impropriamente, Campionato del Sud Italia.
Sono trascorsi 70 anni ed avrei voluto oggi, 1 aprile 2021, realizzare una manifestazione e scrivere di mio pugno, così come feci tempo addietro, in un articolo allora pubblicato da Dario Pennica, direttore della rivista motoristica “Sicilia Motori”, un opuscolo da distribuire agli amici, ma questo maledetto tempo che stiamo vivendo, colpiti, negli affetti e nell’economia, dal Covid19, me lo ha impedito. Resta comunque il rammarico, lo ribadisco, di non averlo conosciuto di persona, il nonno Ciccio e resta altrettanto avvolto nel mistero la causa della sua morte, così come quella di Stefano La Motta: erano altri tempi, il rottame dell’Alfa Romeo con il numero di gara 222, venne subito mandato alla Casa Madre e se ne persero le tracce: forse per non svelare un guasto meccanico che avrebbe potuto compromettere le vendite di una vettura alla quale l’Alfa Romeo tenera molto e sulla produzione delle quale aveva investito ingenti capitali? Non mi risulta, inoltre, che i corpi vennero allora sottoposti ad autopsia: perché, per nascondere cosa? Le cause della morte di Faraco ed anche di La Motta, impatto a parte, restano irrisolte e forse ormai è troppo tardi per far luce, anche se un’idea me la son fatta e a poco servono le testimonianze, da fonti ufficiali, da me raccolte a Priolo Gargallo.