sabato, 21 Dicembre 2024
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A Cave di Cusa e al parco archeologico di Selinunte una grande mostra sui cantieri del mondo antico

Riprodotte in scala 1:1 le macchine per costruire i templi. Una mostra didattica che durerà un anno e che narra il lavoro immane nelle antiche cave, il trasporto dei "rocchi" per 11 chilometri e la costruzione dei templi

La mostra “ARS AEDIFICANDI. Il cantiere nel mondo classico” – prodotta e organizzata da MondoMostre in collaborazione con il Parco archeologico di Selinunte, Cave di Cusa e Pantelleria, diretto da Felice Crescente, promossa dalla Regione Siciliana, Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Dipartimento dei Beni culturali e dell’Identità Siciliana – è allestita tra Cave di Cusa e il Parco archeologico di Selinunte, e sarà visitabile per oltre un anno. Forte di un comitato scientifico di grande rilievo, la mostra è curata dagli architetti Alessandro Carlino, storico dell’architettura che da anni studia i templi dorici siciliani, e Bernardo Agrò, già direttore del Parco.

La mostra ARS AEDIFICANDI. Il cantiere nel mondo classico è dunque un passo avanti e nello stesso tempo un salto all’indietro rispetto al precedente capitolo alla Valle dei Templi: oggi si va veramente al cuore del processo costruttivo, là dove venivano estratti i materiali da costruzione con cui saranno realizzati i templi, a quelle Cave di Cusa (dal nome del barone, antico proprietario dell’area) attive sin dal VI secolo avanti Cristo, abbandonate in fretta e furia quando fu avvistato l’esercito di Annibale. Un’esposizione dal grande valore didattico e documentario che ricostruisce i cantieri allestiti per edificare i grandi santuari dorici di Selinunte. Ripercorrendo le descrizioni delle fonti antiche, e quelle iconografiche dei viaggiatori del Gran Tour, come Houel che nel 1784 documentò l’attività alle Cave di Cusa.

La mostra nasce con l’obiettivo dichiarato di coinvolgere il pubblico nella comprensione delle tecniche e dei processi che furono compiuti anticamente per erigere i templi di Selinunte attraverso la ricostruzione in scala 1:1 di un vero e proprio cantiere. Sulla collina orientale e sull’Acropoli sono state ricostruite – a grandezza naturale – dieci “macchine” tra cui una gru (alta 12 metri, riprodotta in scala reale), carri e slitte per il trasporto del materiale lapideo; strumenti di misura come il corobate (strumento romano usato per misurare la pendenza del terreno).

Il percorso della mostra parte da Cave di Cusa da dove vennero estratti i materiali per la costruzione dei templi selinuntini: le cave sono un vero manuale dei sistemi di scavo, la brusca interruzione dei lavori di estrazione – al sopraggiungere dell’esercito cartaginese – ha fatto sì che venissero abbandonati persino i rocchi finiti, pronti per essere trasportati.  Accanto agli enormi blocchi del Tempio G, è stata posizionata la riproduzione della “slitta” che serviva al trasporto, scivolava su rulli di legno e veniva trasportata dai buoi; vicino, ecco la Macchina di Chersifrone (usata per il trasporto dei rocchi più imponenti tramite rotolamento, intelaiato con travi di legno connesse all’asse di rotazione del tamburo) e della Macchina di Metagene (dal nome del figlio di Chersifrone) utilizzata invece per il trasporto degli architravi: una ruota lignea dentro la quale inserire i blocchi che potevano così rotolare trainati da animali da soma dalla cava fino alla fabbrica.

Le descrizioni vitruviane, soprattutto in questo secondo capitolo, sono un vero tesoro: Ars Edificandi nasce interamente dalle descrizioni puntigliose del trattato De Architectura: lo spostamento dei blocchi, una volta cavati, avveniva tramite carri e macchine che li trasportavano fino all’attuale parco archeologico.

Dal Tempio E di Selinunte provengono tre blocchi architettonici (geison, taenia e triglifo) con ampie porzioni di intonaco policromo, che spiegano appunto come in epoca greca i templi fossero riccamente decorati. La querelle sul colore dei templi coinvolse, sin dagli inizi dell’Ottocento e in concomitanza dei sempre più numerosi viaggi nel sud Italia e in Grecia, intere generazioni di studiosi. Ad Agrigento e Selinunte, questi moderni “architetti-archeologi” scoprirono i resti dell’originaria policromia e, sulla base di precisi rilievi e approfonditi studi, ipotizzarono l’aspetto delle architetture classiche così come dovevano apparire all’apice del loro splendore.

Le macchine e i reperti della mostra ARS AEDIFICANDI permettono di avanzare ipotesi accreditate e scientifiche, sui metodi di costruzione dei templi, utilizzati in tutto il Mediterraneo. Per scoprire sostanzialmente che i metodi erano simili ad oggi, anche se meno raffinati e senza l’uso, ovviamente, della tecnologia. Si progrediva empiricamente, provando e riprovando fino a che non si raggiungevano i risultati desiderati.

La grande CASA DEGLI DEI era sempre orientata verso il sorgere del sole e doveva poggiare su basi solidissime, per cui si scavava il terreno fino a trovare un compatto piano di roccia. Intorno ai templi vi era un portico ombroso (peristasi) per le cerimonie sacre. La statua della divinità era celata all’interno del naos (o cella) – dove potevano accedere solo i sacerdoti -, preceduta da un vestibolo (pronao) e conclusa dalla parte della fronte posteriore (opistòdomo), dove si conservavano gli arredi rituali e i preziosi doni votivi.

LA CAVA

Nelle cave, i banchi di calcarenite venivano intaccati tramite piccoli utensili metallici (scalpelli e mazzette, scalpelline, piccozze, asce …) per formare un taglio in cui si inserivano i cunei (in legno che, bagnati, si gonfiavano e spezzavano la pietra), battuti fino al distacco del blocco. Per le colonne, si scavava una trincea attorno al perimetro del tamburo da cavare e successivamente si procedeva al distacco dal banco roccioso: una tecnica che proveniva dall’antico Egitto e che rimase inalterata fino in epoca romana. Gli elementi da costruzione estratti dalle cave, già sbozzati, erano pronti per il viaggio verso il cantiere che avveniva tramite slitte, carri o, se di grandi dimensioni, con macchine costruite per l’occasione.

LA SLITTA

Un mezzo funzionale e versatile, già utilizzato nelle civiltà egizie e mesopotamiche, era la slitta, composta da assi di legno incastrate tra loro, con le estremità rivolte all’insù per agevolare il movimento. Un mezzo estremamente leggero, progettato per essere smontato e trasportato su carri dal cantiere alla cava, dove veniva rimontata e riutilizzata per i trasporti successivi. Le slitte, una volta caricate del materiale da costruzione da trasportare, venivano trainate da buoi e scivolavano su rulli o assi di legno, a seconda del tipo di carico. Per governare la slitta, la si imbrigliava con funi collegate ad argani che ne regolavano la velocità o a perni di legno incastrati ai lati per frenare lo scivolamento e aumentare la stabilità.

IL CARRO

Siamo proprio all’inizio del percorso, nel cosiddetto Tridente, e qui è visibile il “carro”, il mezzo di trasporto meccanico più usato nella civiltà greca; solido e funzionale, si prestava ai più disparati utilizzi, dal trasporto delle merci a quello degli elementi costruttivi di medie dimensioni. Nonostante la sua robustezza e affidabilità, era però difficilmente governabile nei tratti in pendenza; trainato da buoi, veniva quindi usato soprattutto su percorsi pianeggianti. Nel corso degli anni, è stato però dotato di diversi accorgimenti che lo hanno reso più funzionale: l’innovazione più importante è stata l’avantreno semovente da utilizzare sui percorsi più impervi.

IL CANTIERE

Il cantiere greco è sempre stato un luogo di sperimentazione ingegneristica e meccanica. I blocchi di calcarenite, estratti nelle cave, arrivavano in cantiere su slitte o carri, ma rimaneva da risolvere il problema del sollevamento. Venne così inventata una macchina formata da lunghe travi di legno fissate al terreno e unite alle estremità a formare un triangolo. In testa a questa struttura erano fissate carrucole che mediante delle corde, consentivano di sollevare elementi molto pesanti fino alla quota desiderata. Nasceva così la gru (o capra) adiacente al Tempio A, il cui funzionamento era semplice ma ingegnoso perché, non solo consentiva di sollevare elementi assai pesanti, ma permetteva, mediante un sistema di pulegge, di diminuire lo sforzo necessario. Un’altra macchina utilizzata per il sollevamento dei blocchi in cantiere, descritta da Vitruvio come “assai ingegnosa e comoda”, era il “polyspastos”, gru fissa composta da una singola trave lignea fissata al terreno.

LE COLONNE

Le colonne e le loro porzioni cilindriche (rocchi o tamburi) erano collocate sullo stilòbate (dal greco: stilos = colonna e batis = base). Le scanalature (di norma 16 o 20) che ornavano la superficie esterna, venivano eseguite dopo che tutti gli elementi erano stati assemblati alla perfezione. Al di sopra dei capitelli delle colonne veniva poggiato l’architrave, costituito da grandi parallelepipedi. I perni di giunzione erano in legno o in piombo e servivano per allineare le colonne ed evitare che i rocchi ruotassero sul proprio asse.

LA GRANDE GRU

La grande gru non veniva utilizzata fissandola direttamente al terreno come avveniva per le più macchine piccole, ma era collocata su grossi tronchi, che avevano la funzione di veri e propri binari, su cui la macchina poteva scorrere, in modo tale da non dover essere smontata continuamente. Il sistema di sollevamento utilizzava un argano che era collocato in orizzontale tra le travi principali della gru, ed era azionato da lunghe leve (manovelle). La gru, riprodotta in scala reale per la mostra, è composta da aste convergenti realizzate con travi di legno che misurano 12 metri e hanno una sezione di 35 x 45 cm. Il modello deriva dalle fonti letterarie classiche, Vitruvio in particolare, e dalle fonti iconografiche note, ma è anche debitore delle varie ipotesi ricostruttive dell’architetto greco Manolis Korres.

LE MAESTRANZE E I TEMPI

Alla realizzazione dei templi lavoravano un numero considerevole di persone con specifici compiti, che formavano delle vere e proprie squadre specializzate nella costruzione di edifici monumentali. Questi gruppi detti “officine“, si spostavano di città in città per innalzare i grandi santuari degli dei olimpici. Ci volevano anche decenni per completare un tempio.

COME NASCEVA IL TEMPIO           

In architettura i greci distinguevano tre caratteri costruttivi, e altrettanti stili: il dorico, forte come un atleta o un guerriero; lo ionico, bello come una matrona; il corinzio, prezioso e gracile come una fanciulla. Sopra i geometrici capitelli dorici posava la trabeazione col fregio a trìglifi e mètope. Mentre i due ordini “femminili” presentavano basi sotto i fusti delle colonne, il dorico “maschile” era l’unico a esserne privo: scalzo come i ginnasti o i combattenti.

La fondazione

Una volta stabilito il progetto del tempio, veniva creato il piano di appoggio più profondo, perfettamente orizzontale e collaudato con il sistema egizio: venivano scavati dei canaletti nella roccia e, se il lavoro era stato eseguito a regola d’arte, l’acqua doveva restare in equilibrio.

Il colonnato

Le porzioni cilindriche (rocchi o tamburi) delle colonne venivano rifinite con precisione in cantiere, poste le une sulle altre ed assicurate tramite perni. Le scanalature venivano eseguite solo dopo che gli elementi erano stati assemblati alla perfezione.

La copertura

Se la pietra era il materiale principale nella costruzione del tempio, gran parte della copertura era in legno, sotto il manto di tegole laterizie. Le grandi travi erano composte da più strati che venivano assemblati con chiodi e funi. Le fornaci per i laterizi si trovavano vicino al tempio e seguivano le necessità del cantiere.

La decorazione

Il fregio e il cornicione erano le parti più decorate della trabeazione. I trìglifi rettangolari erano blu, alternati alle mètope dipinte di rosso. Al di sopra dei trìglifi, nel cornicione, venivano intagliati i mùtuli e le gocce, che venivano dorate per evidenziarne la forma che ricordava gli antichi chiodi lignei. Infine, le tegole in terracotta verniciata della copertura.

UNITÀ DI MISURA

Le unità di misura utilizzate in Grecia derivano dai sistemi in uso nel vicino Oriente e in Egitto già nel secondo millennio a.C. e come questi erano basate su misure naturali, facevano riferimento alle parti del corpo umano: il piede, il braccio o la falange di un dito. Lo stesso criterio valeva per le misure di superficie: l’estensione di un terreno veniva calcolata in funzione della quantità di frumento occorrente per la sua semina.

Il modulo

Il modulo era l’unità di base utilizzata per la costruzione del tempio e corrispondeva al raggio della colonna. Tutte le parti del tempio erano proporzionate in base a questa unità. L’architrave, il fregio e tutte le altre parti del tempio rispondono a questo sistema di misura, che guidava i costruttori durante tutte le fasi di realizzazione.

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