Il Cirneco dell’Etna (nella foto accanto il Campione Mondiale Totò, dell’allevamento di “Monte Erice” di Francesca, Nicola e Vincenzo Todaro) nella sua millenaria storia ci è stato consegnato tale e quale a quella che era, presumibilmente, la sua conformazione già tremila anni orsono. E’ un cane che non ha subito manipolazioni tali da comprometterne fisico e psiche.
Nel 1939 l’E.N.C.I., a seguito della meritoria opera iniziata nel 1932 dal dottor Maurizio Migneco prima e da Donna Agata Paternò Castello dei duchi di Carcaci poi, la riconobbe ufficialmente come razza. Nel 1956, invece, venne riconosciuta la Società Amatori del Cirneco dell’Etna (S.A.C.). In oltre cinquant’anni di selezione operata dagli allevatori, la razza si è consolidata nel tipo e nel lavoro.
Le manifestazioni organizzate hanno avuto sempre un buon numero di soggetti partecipanti sia alle prove di lavoro che ai raduni di razza. Le manifestazioni svolte in terra di Sicilia hanno evidenziato la partecipazione di soggetti in mano ai cacciatori che vengono utilizzati nella caccia cacciata.
È noto, infatti, che le prove di lavoro per Cirnechi dell’Etna si rifanno al ”Regolamento” e allo standard di lavoro approvati dall’ENCI. Lo standard di lavoro del Cirneco dell’Etna non è altro che l’effettivo lavoro che il nostro cane compie a caccia. Ecco perché il cacciatore anche non avvezzo alla cinofilia cosiddetta “ufficiale” si avvicina sempre più alle prove trovandovi una valida alternativa alla caccia in un momento in cui varie vicende mettono in discussione l’attività venatoria.
Il Cirneco è un cane da caccia e tale deve rimanere. In un convegno sul Cirneco svoltosi a Catania anni orsono abbiamo appreso da Felice Modica, giornalista e scrittore siciliano e studioso della razza, che sul cirneco le citazioni si sono sprecate e si sprecano. Addirittura veniva chiamato in causa Aristotele, con un’opera che il filosofo di Stagira neppure ha scritto, il “De Natura Animalium”.
Per quanto ci interessa oggi, avviene in tre occasioni: Historia Animalium (VIII 28, 607°2 ss e 606°23) e De generatione animalium (II 746°35). Nella prima opera si parla di “piccoli cani egiziani” e subito dopo è scritto: “A Cirene i lupi si congiungono con le cagne e procreano, e i cani di Laconia vengono dall’incrocio di una volpe e di un cane”. Nella seconda opera esiste un riferimento incerto al possibile incrocio fra cane e sciacallo, che produce “il cane d’India”.
La testimonianza aristotelica è importante per uno studio di Antonino Pagliaro, il grande glottologo siciliano che, nel 1950, scrive: “esiste in Sicilia, ora allevata specialmente nelle province orientali, una razza canina, assai stimabile per eleganza di forme e per attitudini alla caccia. Il nome di tale cane è “cirneco”, ma i lessici registrano prevalentemente la forma femminile “cirneca”. I lessici locali, registrando il vocabolo, si studiano di riportare l’etimo a “cercare”, il che, com’è ovvio, non ha il minimo fondamento.
Per quanto riguarda le testimonianze storiche esistono infinite testimonianze artistiche che raffigurano il tipo del cirneco. Specialmente in numismatica. Nel panorama numismatico siceliota, dal V° al III° secolo a.C. ci sono monete bellissime, vere opere d’arte. Il V° secolo coincide, d’altra parte, col momento di massimo splendore della Sicilia e il fatto che le colonie possiedano zecche proprie è segno di grande prosperità.
Il cane vive nei miti e nei culti dell’isola fin da epoche antichissime e ha sempre l’aspetto di uno pseudo-cirneco, a volte di sorprendente modernità. Soprattutto a Segesta, con 7-8 tipi e 150 varianti per gli argenti e 100 per i bronzi. Segesta, come riferisce Servio, ha avuto origine dalla metamorfosi del fiume Krimysos in cane e dal congiungimento di quest’ultimo con la troiana Egesta, che avrebbe generato Aigestos, fondatore della città.
Il tipo principale dei tetradrammi segestani raffigura appunto un giovane cacciatore nudo armato di lance e con due cani. Per la prima volta compare nel 454-426 a.C., mentre il cane da solo si trova già nel 485 a.C. Poi Erice, Piakos, Motia e, in minor misura Palermo. A Piakos, in particolare, opera il maestro della foglia, che firma le sue monete con una foglia di quercia e una ghianda.
Cani che assaltano cervi (caprioli, in effetti) e che, secondo Rizzo (grande esperto di numismatica), sarebbero gli antenati del cirneco. Ancora, Agira, col Maestro di Agira, come lo ha chiamato Vincenzo Cammarata, cui si attribuiscono monete con Iolao, cacciatore compagno di Ercole: Agira è consacrata ad Eracle.
Infine, le monete dei Mamertini, soldati mercenari che nel 3° secolo a.C. compiono scorrerie in Sicilia e Calabria. Da un lato raffigurano una testa barbuta con elmo corinzio (forse il dio Adranos) e dall’altro il cane. In letteratura il cirneco è presente ne “La pelle” di Malaparte e, prima ancora in “Un cane come me”, ne “La Cugina” di Ercole Patti, oltre che ne “L’Aranceto”, “Il Diario siciliano”, “Alla ricerca della felicità”.
Ancora nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, dove viene erroneamente interpretato da Giorgio Bassani che lo chiama “cerviero”. A partire dal 1979, le successive edizioni del capolavoro saranno rivedute e corrette. Bufalino, adopera la forma “cernieco” ne “Il Malpensante. Lunario dell’anno che fu” e in “Saldi d’Autunno”, salvo ripiegare sul corretto “cirneco” in “Qui pro quo”. Ancora Sciascia, che ricorre al termine “cirneco”, per Salvatore Sgroi consapevole uso idiolettale, in “Porte aperte” e in “A ciascuno il suo”.