lunedì, 23 Dicembre 2024
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Nella costellazione del Libro. Intervista a Salvatore Ferlita.

La congiunzione astrale a cavallo delle due ultime settimane di aprile ha fatto apparire nella costellazione del libro un allineamento di eventi pari al numero di stelle della Cintura d’Orione: la Fiera dell’Editoria Italiana “Tempo di Libri” (Milano-Rho, 19-23 aprile), “La Via dei Librai” (Palermo, 22-23 aprile), la Giornata mondiale Unesco del Libro e del Diritto d’Autore (23 aprile). Senza scomodare oltremodo i planetari e tornando, coi piedi in terra, ai nostri spazi urbani; in un racconto-intervista, poi pubblicata da Passigli Editore in “La responsabilità dell’Architetto”, Renzo Piano afferma che: “una città non è disegnata, semplicemente si fa da sola. Basta ascoltarla, perché la città è il riflesso di tante storie”. Ho seguito la suggestione e dei Libri come della Letteratura, dello scrivere in genere come della lettura, degli elzeviri estinti come del significato dei premi letterari, ne ho parlato con Salvatore Ferlita; docente universitario, saggista, critico letterario e, fra le sue molteplici esperienze, direttore della collana editoriale “Mondi di Carta” per l’editore Il Palindromo. Ecco a seguire le sue cartografie da lettore ‘speciale’ e non solo.

Salvatore Ferlita, partiamo dalla tua passione per i mondi di carta. C’è un particolare periodo storico-letterario che più ti affascina o che ti incuriosisce?

Ultimamente m’incuriosisce la fine ‘800 e i primi ‘900. Io sono un contemporaneista, ma per motivi che vanno anche ben oltre il mio lavoro sto riesumando un’idea un po’ bislacca dovuta a Luigi Baldacci; penna al vetriolo della critica letteraria. Baldacci sosteneva che la novità era in Italia l’’800 e che il ‘900 era una risacca. Basterebbe citare due titoli, per capire: “Ottocento come noi” e “Novecento passato remoto”. Mentre leggevo questi due saggi mi trascinavo qualche pregiudizio e pensavo d’essere di fronte al solito studioso di Carducci, Pascoli, De Roberto, forse un po’ di Collodi. Ultimamente, invece, mi trovo sempre più in sintonia su questa visione, perché nel frangente di tempo tra la fine di un secolo e l’inizio di un altro si scatenano energie straordinarie: c’è il vecchio che stenta a morire e il nuovo che nasce e si contamina con il vecchio e ne vien fuori una sorta di selva oscura abbastanza affascinante. Oggi più di ieri, per esempio, sto riscoprendo la lezione formidabile di Collodi e di Pinocchio, che ogni volta che passo al setaccio della lettura mi trasmette sempre qualcosa di nuovo. Il classico, secondo me, è quello che ogni volta che ti avvicini a un’opera quell’opera ti dice una cosa che prima non t’aveva detto e se continua a dire qualcosa significa che è più contemporanea di una Elena Ferrante.   

Cosa apprezzi di più in un libro e cosa meno in una scrittura?

Un libro, diceva Manganelli, è una botola. Se funziona, ci cadi dentro e non te ne accorgi. La cosa bella è il non riuscire a venirne fuori e se un libro funziona cosi è un libro che mi piace. In una scrittura io mi guardo bene dall’effetto specchietto per le allodole. Avendo letto parecchio Bassani, Cassola, Sciascia, Soldati ho sviluppato una specie di orticaria per lo stile a tutti i costi, per l’orpello, il colpo di fioretto. Spesso sotto alla tensione pirotecnica della scrittura mi accorgo che non ci sta nulla. Per cui è un gioco di prestigio che magari t’incanta, ti appassiona, ti fa trasecolare e poi passa tutto. La cosa bella è che nella scrittura più trasparente tu ti accorgi che quello che non si vede c’è ma è nascosto ed è là che il lettore deve farsi palombaro, per dirla con Federico Tozzi. Le scritture eccessivamente marcate, espressionistiche, plurilinguistiche, mi danno particolarmente fastidio; fatto salvo, però, il particolarissimo Andrea Camilleri, uno scrittore a suo modo plurilinguista. Nel “suo” caso lo stilista non arretra mai di fronte alla possibilità del narrare, cosa che non sapeva fare, ad esempio, uno scrittore come Gadda; a mio avviso uno stilista assoluto e non un grande narratore. In Camilleri, invece, c’è il divertimento linguistico messo a servizio della narrazione.

Secondo te, perché in Italia siamo sempre più anoressici di lettura e ciò nonostante sempre più bulimici di scrittura?

Ho sentito dai radiogiornali di oggi le stime inquietanti del calo dei lettori in Italia. Si tratta di percentuali veramente terroristiche rispetto agli anni passati. C’è in Italia chi nell’arco di un anno non prende un libro e chi lo abbandona quasi subito se lo prende. Perché gli italiani si siano ridotti in questo stato bisogna chiederlo al sociologo, all’antropologo, io scomoderei pure la scuola; evidentemente c’è qualcosa che non funziona anche lì. I giornali forse sono messi peggio dei lettori, che non li leggono. Spesso mi capita di sentire la lamentela del lettore che cerca in un giornale quello che non trova più; come gli spazi dedicati alla critica letteraria o alle cronache culturali, sempre più inesistenti. I giornali stanno perdendo una partita che non so dove porterà. Fatto sta che siamo messi male perché non si legge più il libro, non si legge più il giornale – magari, spesso, scritto male -. Karl Kraus diceva che “il giornale è la conserva del giorno. Serve soprattutto a incartarci il pesce e se poi ti serve a qualcos’altro, bene”. Il nostro è un Paese dove si promuovono e si frequentano laboratori di scrittura, evidentemente bisognerebbe fare un laboratorio per i lettori.     

I premi letterari italiani aiutano realmente a far leggere di più o si limitano ad essere un imprimatur pubblicitario d’alta élite?

Secondo me sono l’uno e l’altro, perché è evidente che uno Strega, in qualche modo, diventa una cassa di risonanza. E’ però anche vero che ‘questi libri’ dispongono di vetrine, come quelle televisive, e sono libri che sono scritti con scadenza da yogurt. A memoria qualche libro buono premiato c’è stato ultimamente, magari con un “premio” non patinato, più marginale. Il fatto sta, e sui giornali se n’è parlato, nella supremazia delle case editrici che decidono sulle turnazioni. Per intenderci, un luogo è inquinato dai grandi interessi dei magnati, dei questi grandi editori, che sembra che decidano a tavolino, e, poi, delle giurie, che, in qualche modo, si allineano silenziosamente quasi accettando questo imprimatur che è imbarazzante. Poi ci sono i casi isolati e ogni tanto viene fuori un libro meno noioso di altri e tu dici che forse aveva un senso per quel libro partecipare a quel premio. Io li guardo sempre più con sospetto e anche con fastidio. A volte mi sembrano solo dei pretesti per la solita performance di Bruno Vespa che sembra più interessato al décolleté della scrittrice premiata che allo stile.     

Il raddoppio letterario Torino-Milano porterà secondo te all’alta velocità della letteratura in Italia o si rivelerà un cantiere perenne, in stile TAV, nel nostro caso sempre più presidiato dai soliti potentati?

Non saprei, ma da apocalittico direi subito che sarà un cantiere come dici tu. Va detto poi che sia i Festival che i Saloni sono di moda. Tutto quello che è glamour in Italia tira. Non so quanto incida sul numero di copie vendute o sull’affezione del lettore nei confronti dell’autore prediletto. Mi sembrano degli eventi mondani dietro i quali ci stanno altre logiche: il Salone del Libro che doveva essere depotenziato; la levata di scudi contro il buon Ernesto Ferrero; adesso è subentrato il giovane e volenteroso Nicola La Gioia, che mi sembra uno motivato e con argomenti seri. Certo sarà un’occasione dispersiva questa divaricazione Milano-Torino, però può darsi abbia anche i suoi effetti positivi, come già lo sfasamento di date del loro svolgimento attesta. Io, comunque, non vado più al Salone del Libro da almeno quattr’anni.  

Passiamo alla Sicilia. Come fare e meglio editoria nell’Isola e come far emergere il sommerso narrativo che c’è? (e intendo dei “suoi” nuovi scrittori, ndr)

La speranza, in merito ai nuovi scrittori, viene tenuta in vita dalle medie e piccole case editrici, che paradossalmente osano di più. C’è un azzardo delle scelte di queste, e parlo dé Il Palindromo come di altre piccole realtà, che ogni tanto tirano fuori un nome nuovo che spesso poi si rivela una scelta oculata. Cosa, invece, che non vedo più fare all’altra faccia dell’editoria, cioè quei marchi editoriali che ormai sono cristallizzati perché immediatamente riconoscibili e che tirano fuori dei successi seriali. Le “grandi” contano di una scuderia niente male di autori, ma lasciano la ricerca, cioè il setaccio che si faceva un tempo sul territorio. Pertanto ben vengano folli come i nostri “Palindromi” (i due editori Nicola Leo e Francesco Armato, ndr) o altri come loro, che rischiando portano avanti un’attività che ha un senso. Devo dire che ultimamente Palermo è tornata a mostrare un certo fermento interessante, dopo una fermentazione, e dico “speriamo bene!”. Fare editoria è complicato, perché poi c’è la promozione del libro, la distribuzione, la visibilità da garantire, la partecipazione ai premi e lì il piccolo e medio editore lo vedo in difficoltà. I piccoli editori sono ad ogni modo una garanzia, un puntello in questo lavoro di scavo e di ricerca delle nuove voci letterarie che vedo agguerrite, con le loro presenze a reading e iniziative sul territorio, per emergere. 

Salvatore Ferlita non è solo un appassionato lettore, ma anche un docente universitario, critico letterario, saggista, giornalista e direttore di collana, ma anche di scuola e artistico. Quale di questi ruoli, e senza graduatorie, ti diverte di più? o quale ritieni più utile citare in un tuo biglietto da visita destinato a un editore straniero e perché?

Io metterei sempre tra tutti i ruoli quello di critico letterario. Dentro ad esso ci sta il lettore di professione, ma anche il militante che prende posizione talvolta scomoda o controcorrente, e, come pure, può contenere il consulente, che ogni tanto può dare una dritta. Il critico letterario è anche quello che esercita il dovere della critica, di leggere criticamente il testo, cioè di uno che deve prendere atto del testo e provare a metterlo a sistema tenendo fede a dei principi, esprimendo un giudizio di valore, rischiando in proprio anche perché punta su un cavallo che crede vincente e che poi non sa se alla lunga terrà. Il problema del critico non è solo legato a chi fa la critica, ma anche agli spazi in trasformazione e che si vanno sempre più riducendo. Oggi, ed avviene in IBS come nella rete in generale, il commento di un lettore tira molto di più. Il critico nonostante tutto questo è colui che esercita il suo mestiere avendo una sua autorevolezza e lo fa su un giornale, un blog o avendo una pagina di internet e continua a svolgere il suo ruolo malgrado tutto e nonostante il rischio, un po’ come i panda, di incombente estinzione. 

Kafka, Pirandello, Musil, Zeno sono stati il grimaldello che ti hanno aperto la strada alla passione di leggere e, indirettamente, quella di scrivere. Se dovessi oggi trovare l’analogo “grimaldello” per tua figlia o un suo coetaneo, chi indicheresti? E perché?

Io sono un papà che regala libri. Farò solo leggere a mia figlia Pinocchio in maggiore età, perché lo considero, come detto all’inizio, un libro più indicato ai lettori adulti. Mia figlia legge “Piccole Donne”, “Il fu Mattia Pascal”, Shakespeare e tutti in collane ridotte di case editrici straordinarie che riescono a creare costellazioni dedicate ai giovani lettori. Con mia figlia, ad esempio, ha funzionato poco Harry Potter e, invece, ha funzionato di più “Il Piccolo Principe”, s’è appassionata, ad esempio, di Geronimo Stilton. Io ho provato anche a mettere Italo Calvino, tra una cosa e l’altra, che ha avuto un discreto successo. Oggi direi a mia figlia di leggere Stefano Benni; un autore che sempre più mi sorprende per il suo essere metamorfico e che, ultimamente, sta calpestando la plaga della letteratura per l’infanzia, come grande contenitore, evitando al contempo gli stereotipi che sono i passamano rassicuranti per il lettore. Anche le ultime cose mi hanno ben impressionato e per parlare di un autore vivente. Benni è uno che continua a trasmettere qualche brivido alla spina dorsale. Un ottimo “grimaldello”, al pari degli altri, per essere iniziato alla sana passione di leggere.

Palermo 2018 Capitale della Cultura Italiana è un traguardo importante e insieme una grande responsabilità. Come vede l’appuntamento il critico letterario e il saggista? E quali saranno, senza leggere i fondi di caffè, i riflessi del grande appuntamento mediatico, con la sua grancassa, per l’Isola intera e per il suo futuro  creativo e letterario?

E’ un’occasione importantissima, secondo me, e quindi va giocata in maniera molto oculata. Mi preoccupa solo il fatto che in questa città, se c’è stata una cosa che si può indicare come suo punto dolente, è la mancanza di un progetto generale a vari livelli, ma soprattutto a livello culturale. Io penso a Palermo capitale della cultura nel 1963, quando nessuno se l’aspettava. Quando qui covavano i germi della nuova musica, la neoavanguardia letteraria, quella pittorica; insomma lì Palermo mostrò un sembiante straniante, forse irriconoscibile, perché nessuno se l’aspettava. Ora, il problema è che quando una s’aspetta qualcosa da Palermo, Palermo solitamente non mantiene. Pertanto mi auguro che sia un’occasione propizia se giocata bene e se a livello politico-amministrativo si riesce a fare sistema, che è un problema endemico di questa città. Poi ci sono risorse non indifferenti. Ad esempio, Palermo rimane ancora una città esotica per molti. C’è il fascino dello sconosciuto, del lontano, e questo può giovare. Può essere pure l’occasione per scrollarci di dosso i residui stereotipi, i luoghi comuni, che Savatteri ha provato a demolire con il “suo ultimo” testa d’ariete (“Non c’è più la Sicilia di una volta” Laterza editore, ndr.). C’è lo auguriamo tutti questo. Poi per l’Isola, invece, ci sono campanilismi più o meno evidenti, più o meno sotterranei, per cui per Palermo è anche un motivo di rivalsa rispetto alla posizione imperiosa di Catania che da un punto di vista musicale, industriale e tecnocratico è messa meglio di Palermo. Palermo credo che in questo momento possa considerarsi nel derby letterario in vantaggio.   

Salvatore Ferlita è nato a Palermo nel 1974. Professore associato presso la cattedra di Letteratura italiana contemporanea della “Uni-Kore” di Enna. Collabora a “La Repubblica” (Redazione Sicilia) e al mensile “Segno”. Fra i suoi saggi: “La Sicilia di Andrea Camilleri. Tra Vigàta e Montelusa” (2003), “I soliti ignoti” (con prefazione di Andrea Camilleri, per Dario Flaccovio, 2005) “Sperimentalismo e avanguardia” (Sellerio, 2008), “Novecento futuro anteriore. Saggi di letteratura (Di Girolamo, 2009), “Contro l’espressionismo. Dimenticare Gadda e la sua eterna funzione” (Liguori, 2011). “Le arance non raccolte. Scrittori siciliani del Novecento” (Palumbo 2011, con una videointervista ad Andrea Camilleri), poi a più mani, insieme a Fabio La Mantia e Andrea Rabbito, “Il dramma della straniera. Medea e le riscritture novecentesche del mito” (2012),”Alla corte di Federico” (Bonanno, 2012), “Non per viltade. Papi sull’orlo di una crisi” (Mimesis, 2013), “L’Isola immaginaria. Andrea Camilleri la Sicilia” (2013), “Palermo di carta. Guida letteraria della città” (Il Palindromo, 2013), “Quando si partiva per la lontana Merica” (2013, con Maurizio Piscopo e Giuseppe Calabrese), “Letture ricreative. Traiettorie e costellazioni letterarie” (2016). E’ direttore di alcune collane editoriali per Kalòs (Carte segrete), (Il Monocolo) e Il Palindromo (Mondi di carta). E direttore della Scuola di Attori dell’Agricantus di Palermo e direttore artistico del Teatro L’Idea di Sambuca di Sicilia.

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