Per i giudici, Lia Pipitone, la figlia ribelle di un boss di Palermo uccisa a 25 anni nel 1983, è vittima della mafia. Per il ministero dell’Interno, invece no. Alessio Cordaro, il figlio di Lia, continua la sua battaglia con il libro “Se muoio sopravvivimi” che l’editore Zolfo ripubblica in una versione aggiornata: dieci anni fa, il racconto-inchiesta scritto insieme al giornalista Salvo Palazzolo fece riaprire l’inchiesta giudiziaria, che era stata archiviata subito dopo il delitto avvenuto al culmine di una falsa rapina, e già sono passati 39 anni.
Di recente, la Cassazione ha confermato le condanne a 30 anni per due boss di Cosa nostra, Antonino Madonia e Vincenzo Galatolo, loro ordinarono la morte della giovane con il consenso del padre.
«Lia era nata per la libertà. Ed è morta per la sua libertà», ha detto il pentito Francesco Di Carlo. «Fu omicidio per onore – ha spiegato un altro ex autorevole mafioso, Rosario Naimo – si sapeva che la figlia del signor Pipitone tradiva il marito». In realtà, era una voce che girava nel quartiere, all’epoca era inconcepibile che un uomo e una donna potessero essere solo amici. Il giorno dopo il delitto di Lia, il suo amico venne “suicidato” dal balcone di casa e costretto a scrivere una lettera: «Mi uccido per amore».
Nella nuova edizione del libro “Se muoio sopravvivimi – Lia Pipitone, uccisa dalla mafia perché si ribellò al padre boss” Alessio Cordaro e Salvo Palazzolo tornano a ripercorrere la storia della giovane, che riuscì a fuggire da Palermo con il fidanzato per sfuggire al padre-padrone: mafiosi autorevoli si mobilitarono per ritrovare i due ragazzi, e il compagno di Lia fu anche portato davanti a un tribunale di mafia. Ma lei non si arrese, continuò a contestare il padre e a vivere la sua vita in libertà. Anche quando una voce insistente nel quartiere iniziò a dire che stava dando scandalo per la sua amicizia con un uomo.
«Mia madre continua ad essere una vittima di serie B – dice Alessio Cordaro – Nonostante i giudici abbiamo scritto parole chiarissime». Per il ministero dell’Interno, Lia Pipitone non ha i “requisiti soggettivi” per essere riconosciuta vittima di mafia.
Dice Palazzolo: «Per trent’anni, lo Stato ha archiviato il caso come una rapina finita male: una messinscena che non insospettì la polizia. E oggi viene da pensare male: le ultime indagini sull’omicidio dell’agente Agostino raccontano che il clan dell’Acquasanta teneva rapporti con ambienti deviati delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, in quel quartiere i Galatolo custodivano la base operativa da dove partivano i sicari di Riina per gli omicidi eccellenti».
In quel quartiere Lia voleva vivere la sua vita. «Al figlio di Lia Pipitone è stato anche detto che la richiesta di risarcimento è arrivata fuori termine. Parole davvero paradossali – prosegue Palazzolo – lo Stato ci ha messo trent’anni per dire che era un omicidio di mafia, e solo perché un figlio ha iniziato a cercare la verità sulla morte di sua madre».