mercoledì, 25 Dicembre 2024
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Parlare la lingua dei nostri padri, è giusto o no?

Da un po’ di tempo ho notato che senza accorgermene, quando sono a colloquio con qualcuno, spesso intercalo frasi nella lingua dei nostri padri. E già, la lingua dei nostri padri: il siciliano, ma si può parlare di lingua al pari di tutte le altre o è un dialetto?

Vi posso assicurare che si tratta di lingua. La lingua siciliana è antecedente alla lingua italiana, infatti oltre ad aver avuto l’influenza dal latino, la nostra lingua ha ricevuto influenze dalle varie dominazioni che si sono succedute nella nostra terra, l’arabo, il greco, il francese, lo spagnolo, etc.

Esempi di queste contaminazioni linguistiche c’è ne sono a bizzeffe: (dal web)

  • abbanniàri (proclamare, gridare) [tedesco: bandujan];
  • addumàri (accendere) [francese: allumer];
  • annacàri (cullare, dondolare) [greco: naka];
  • antùra (poco fa) [latino: ante horam];
  • arrassàri (allontanare) [arabo: arata];
  • babbalùciu (lumaca) [arabo: babalush];
  • babbiàri (scherzare) [greco: babazo];
  • balàta (lastra di pietra) [arabo: balàt];
  • bìfara (varietà di fico) [latino: bifer];
  • càlia (ceci abbrustoliti) [arabo: haliah];
  • càmula (tarma) [arabo: qaml, qamla; latino: camura];
  • canìgghia (crusca) [latino volg.: canilia];
  • càntaru (càntero, vaso da notte) [greco: kantaros];
  • fòrficia (forbici) [latino: forfex; italiano arc.];
  • fumèri (letame, concime stallatico) [francese: fumier];
  • gèbbia (ricetto d’acqua, vasca) [arabo: gébiya];
  • giugnèttu (luglio) [francese: juillet];
  • giùmmu (pennacchio) [arabo: giummah];
  • lippu (grassume, muschio di conduttura d’acqua) [greco: lipos];
  • manciaciùmi (prurito) [francese:];
  • munzeddu (cumulo, mucchio) [francese: moncel];
  • muscalòru (ventaglio per le mosche) [latino: muscarium];
  • ‘ntamàtu (sbalordito), [greco: thàuma; francese: entamé];
  • ‘nzémmula (insieme, in compagnia) [latino: in simul];
  • pidicùddu, piricùddu (picciuolo di frutto) [latino: pediculus];
  • pitrusìnu (prezzemolo) [greco: petrosélinon];
  • raggia (rabbia) [francese: rage];
  • sciàrra (litigio) [italiano arc.; arabo: sciarr];
  • tannu (tempo fa, allora) [latino: tandiu];
  • trùscia (fagotto) [francese: trousse];
  • tuppuliàri (battere) [greco: typto];
  • vuccèri (macellaio) [francese: boucher];
  • zuccu (ramo che nasce dalla parte bassa del tronco, tronco) [arabo: suq].

Non mi voglio dilungare, ma la nostra è sicuramente una lingua antica anche se da essa sono nate delle figlie, in ogni provincia, città e paese se non addirittura in zone più ristrette come ad esempio i quartieri della stessa città. Le storpiature della stessa parola sono molteplici. Ma tutte queste varianti derivano da un’unica lingua madre: il siciliano antico.

Ma come mai adesso io parlo spesso e volentieri nella lingua dei padri? La spiegazione logica c’è: sono nato nella ridente borgata marinara palermitana di Sferracavallo, dove in prevalenza, tra i paesani (scrivo paesani perché Sferracavallo ha tutte le caratteristiche per essere considerato un paese) si parla prevalentemente in dialetto e poi, credo, per eredità.

Cosa intendo per eredità? Ovviamente mi riferisco all’eredità “linguistica” trasmessa da mio padre “sferracavallese doc”. Negli ultimi anni della sua esistenza terrena, parlava solamente in dialetto, come se avesse dimenticato la lingua italiana. Proprio lui che quando io e mio fratello eravamo piccoli, venivamo rimproverati se a casa pronunciavamo parole in dialetto.

Vi chiederete il perché? Il perché è presto detto. Nella mentalità delle persone era sconveniente parlare la lingua del popolino, non si adattava a gente di un certo livello sociale, e siccome lui ci teneva che sia io che mio fratello ci elevassimo socialmente, ci riprendeva.

Quindi anch’io come lui, alla mia non più tenera età, parlo e scrivo in siciliano, perché l’età ci porta a questo senza rendercene conto? Può darsi, ma a me parlare in siciliano è sempre piaciuto, anzi talvolta lo uso per rimarcare la distanza da certi saccenti che si credono “evoluti”, si, provengo dal popolo ma questo non è un difetto per me è un pregio.

Cari amici, non ci dobbiamo mai vergognare di parlare la lingua dei nostri padri. Gli abitanti del centro o del nord d’Italia non se ne vergognano, perché dobbiamo sentirci in imbarazzo noi?

Orsù cumpari e cummari, quantu è bello parrari in sicilianu!

Agneddu e sucu è finiu u vattiu

N.B. Questa volta, volutamente, non traduco le due frasi che ho scritto sopra. A buon intenditore poche parole.

L’immagine di copertina, l’ho tratta dal “Vocabolario – Siciliano-Italiano – Illustrato” di Antonio Traina. Ed. Centro Editoriale Meridionale.

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