Oggi ricorre il “Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice“, istituita dalla Repubblica Italiana il 4 maggio 2007 e celebrata proprio il 9 maggio per ricordare Aldo Moro, politico e statista italiano nonché cinque volte Presidente del Consiglio dei Ministri e presidente del partito della Democrazia Cristiana, morto per mano delle Brigate Rosse, e Peppino Impastato, giornalista e speaker radiofonico palermitano, ucciso brutalmente dalla mafia siciliana.
Un giorno come gli altri, un martedì come tanti altri, le vite di due persone molto diverse si incrociarono, in un oscuro abbraccio mortale, che unì per sempre i loro destini. Tutelavano la giustizia, difendevano e praticavano la legalità, oltrepassavano gli ostacoli per portare avanti quei valori in cui credevano fermamente, che erano, tra l’altro, il motore del loro lavoro, della loro vita, del loro impegno quotidiano.
Aldo Moro era leccese, classe 1916, laureato alla Facoltà di Giurisprudenza. Iniziò la carriera politica a soli trent’anni nelle fila della Balena bianca. L’impegno civico e la tutela dei valori più alti dello Stato erano da sempre prerogativa non del politico, ma dell’uomo Aldo Moro che diventarono materia scolastica: introdusse lo studio dell’educazione civica nelle scuole medie ed elementari affinché le nuove generazioni imparassero e insinuassero dentro di loro quegli stessi valori.
Ricoprì cariche istituzionali importanti quali Ministro di Grazia e Giustizia nel 1955, Presidente del Consiglio dei Ministri dal 1963 al 1976 quando, per il “grande rifiuto” a sostegno di Moro del segretario socialista Francesco De Martino, non poté avviarsi il suo quinto governo consecutivo, segretario del partito della Democrazia Cristiana a partire dal 1959, ma, prima di ogni cosa, fu attivista inarrestabile contro ogni forma di terrorismo nazionale ed internazionale tanto che, in veste di Capo della Farnesina, riuscì a strappare a Yasser Arafat l’impegno a non porre in atto condotte di terrorismo in territorio italiano, con un impegno che fu battezzato patto Moro o lodo Moro.
Ma molti altri furono gli impegni e i traguardi politici raggiunti da Moro, soprattutto nei momenti storici più difficili che il Paese dovette affrontare e che, per una ragione ragione politicamente documentabile, ma moralmente ed eticamente inspiegabile ed inaccettabile, si ritorsero contro di lui e lo condussero verso l’ultima fase di una vita vissuta a tutela della legalità e contro ogni forma di terrorismo.
Tutto si fermò quel 16 marzo 1978, quando Aldo Moro fu rapito dagli uomini delle Brigate Rosse (un’organizzazione terroristica Italiana di estrema sinistra costituitasi nel 1970 per propagandare e sviluppare la lotta armata rivoltuzionaria per il comunismo) e fu ucciso dagli stessi che, in quel terribile 9 maggio 1978, consegnarono il suo corpo esanime al mondo nel cofano di una Renault 4 posteggiata solitaria in via Caetani a Roma, in prossimità della sede del partito della Democrazia Cristiana.
Un giorno triste, la sconfitta di uno Stato che perse uno dei suoi soldati più valorosi che, forse per uno strano scherzo del destino, coincise e si incrociò con la vita di un altro uomo: il palermitano Peppino Impastato. Peppino non era un politico, non era uomo di legge, anzi, era un “figlio della mafia”, nato e cresciuto in una famiglia di mafiosi. Eppure, qualcosa legò la sua vita e quella di Aldo Moro: crescendo divenne giornalista e attivista del Partito Proletario, lottando e condannando la mafia di Cosa Nostra definendola “una montagna di merda“.
Una vita di lotta, quella di Peppino, dentro e fuori casa, condotta col gruppo Musica e cultura sulle frequenze di Radio Aut, radio libera, autofinanziata, con cui denunciò i crimini e gli affari dei mafiosi di Cinisi, sua città di nascita, e Terrasini, che si concluse tragicamente quella notte, tra l’8 e il 9 maggio 1978, quando, con deplorevole malvagità, venne catturato dai suoi carnefici, condotto presso una stazione ferroviaria del palermitano, legato ai binari e, per inscenare un falso atto terrorismo suicida, venne posto sotto il suo corpo una carica di tritolo.
Due vite parallele, quelle di Aldo e Peppino, legate dal filo rosso della morte, unite dal tragico destino che, incompresibilmente ed indissolubilmente, ha contrassegnato le loro storie; storie fatte di parole, azioni e ideali più forti di qualunque oppressione, di qualsiasi pregiudizio e paura che non hanno mai fermato il loro bisogno di migliorare il mondo, di costruire un futuro luminoso lontano dal quel “puzzo del compromesso morale” contro il quale Paolo Borsellino e Giovanni Falcone lottarono negli anni successivi.
Oggi, 9 maggio 2018, 40 anni dopo, torniamo a ricordarli affinché le loro lotte non vengano dimenticate e affinché il loro sacrificio non ci faccia mai perdere di vista l’obiettivo principale di tali lotte: il rifiuto di ogni forma di terrorismo e oppressione in nome della legalità e della libertà individuale quali basi di una società libera e civile.